Immergersi in un cinema che non fornisce risposte né risoluzioni agli interrogativi esistenziali che si pone. Accedere ad un possibile senso prendendosi del tempo. Magari attraversando la visione come fosse un percorso iniziatico, così che il battito cardiaco del film e quello dello spettatore vadano insieme. È questa senza dubbio la dimensione più filosofica del cinema di Claire Denis che, forte di quest’impostazione, è solita disseminare domande lasciando trapelare qualche probabile spiegazione tra le pieghe e gli interstizi delle sue opere, sempre così compiute e rifinite. Si potrebbe azzardare un aggettivo che sembra non confarsi al suo cinema ma che in realtà è centrale: le opere di Claire Denis sono minuziosamente cesellate. Infatti, se la ricerca dei luoghi dove girare è pure un momento significativo, considerando quella vocazione al cinema di viaggio, alla ricerca di paesaggi e spazi che l’aveva avvicinata a Wim Wenders durante la lavorazione di Paris, Texas (1984), al montaggio la regista dedica un’attenzione differente.
Più che un assemblaggio, il montaggio si configura per la regista come un ripensamento, una riscrittura dell’immagine nel segno dell’accidentale: in Nenette et Boni (1996) il movimento è ondivago e lo sguardo di Denis è come se circumnavigasse i suoi obiettivi, perdendosi sempre in altri percorsi e vicende, pur continuando a seguire i suoi protagonisti. In Trouble Every Day (2001), ma anche nell’ultimo High Life (2018), la narrazione procede per istantanee di simboli e colpi diretti ai sensi, essendo il suo un cinema di percezioni e di contatto. In entrambi i film il montaggio fa sì che la tensione e la paura crescano: da un lato, nelle premonizioni mortifere e cannibalistiche di Shane Brown/Vincent Gallo, fungendo (il montaggio) quasi da premonizione; dall’altro, l’impostazione “paratattica” del racconto, fatta di stazioni temporali sfuggenti e congelate, è per Denis mezzo e motivo di esplorazione di ciò che resta della Terra nel ricordo e nella memoria dei protagonisti.
High Life non segue un corso degli eventi lineare e consequenziale. La cineasta si concede anzi ellissi e spesso torna indietro nel tempo per disvelare particolari retroscena, tramite le sequenze accompagnate dalla voce fuori campo di Monte (Robert Pattinson). Condannati sulla Terra per reati feroci, lui e gli altri membri dell’equipaggio spaziale avevano accettato la commutazione della pena di morte in un errare che li avrebbe presto annichiliti, sviliti, decimati, convinti di aver preso parte ad un esperimento devoluto alla causa ecologista e riproduttiva.
I film di Claire Denis si situano in spazi di confine e di intrusioni inumane da cui si riverbera la forza mostruosa e brutale delle identità e dei corpi coinvolti. Filmare questo processo trasformativo è per Denis fondamentale: non per caso il film che per afflato umanistico e tessuto visivo si avvicina di più a High Life è proprio Trouble Every Day, dove la cineasta guarda alla suscettibilità e vulnerabilità umane in relazione al corpo e a come l’uomo reagisca all’intrusione, a qualcosa di incomprensibile e sregolato come la malattia di cui resta vittima Coré/Beatrice Dalle. Il corrispettivo di quest’intrusione è in High Life la condizione di assoluta solitudine e lontananza dai legami e dagli affetti terrestri dei membri dell’equipaggio, dove l’unica speranza di futuro si nasconde negli esperimenti riproduttivi della dottoressa Dibs/Juliette Binoche.
Quindi: cosa diventa l’uomo in condizioni estreme, senza il controllo della libido – evidente anche in High Life – che sfocia nel cannibalismo, in un caso, e senza tutto ciò che riguarda il caleidoscopico quadro dei sentimenti umani, nell’altro? Queste sono le domande che si pone Claire Denis che parla della propria e altrui intimità sconosciuta «portando alla luce», riprendendo la tesi del critico francese Jean-Michel Frodon, «l’esperienza di un’arte medianica, lontana dal rinchiudere colui che vi si abbandona con molto riserbo, ma, al contrario, destinata a trasformarsi in un potente dispositivo di apertura». Un’arte che apre e sonda gli spazi del desiderio rispetto a ciò che può essere-diventare un corpo, accordando nuovamente importanza alla sua concretezza e fisicità come in Beau Travail (1999).
Denis filma la presenza materica di questi corpi e il paesaggio sonoro che li avvolge come nella magistrale sequenza dell’autoerotismo della dottoressa Dibs dove il corpo di Juliette Binoche sembra sfibrarsi e auto-lesionarsi a ogni movimento di macchina e in cui la fotografia sporca e ruvida ne restituisce tutta la carnalità. Ritorna la presenza imprescindibile di Agnès Godard, sua storica direttrice della fotografia. Infatti, ritornando a Trouble Every Day, nel riprendere l’iconica scena in cui Coré divora il volto di uno dei suoi amanti, Godard si colloca a una distanza minima dai corpi dei protagonisti in modo tale da restituire tutta l’urgenza dell’immagine così com’è, senza tagli o ellissi che avrebbero spezzato il profluvio di sensazioni che fuoriescono dall’intera sequenza. Coré e la dottoressa Dibs condividono l’isolamento e l’impossibilità di legarsi e arrivare all’amore, mettendo così in atto nello spettatore quel meccanismo di empatia, tipico dell’horror, per cui vengono umanizzati il mostruoso, ciò che devia dalla norma.
In High Life si ritrova l’esperienza di ciò che è altro da sé, del non ordinario, vale a dire le condizioni in cui si trovano i galeotti-astronauti, senza neanche la speranza di poter ritornare alla vita, avvolti dalla rarefazione cosmica. In questo senso, il modo in cui l’essere umano vive il desiderio e la propria sessualità in un ecosistema difforme, primigenio e ancestrale e come questo nuovo ambiente influisca sull’evoluzioneinvoluzione dei prigionieri definiscono infine la poetica determinista di Denis e il rapporto che s’instaura tra uomo e ambiente.
Lo spazio e il paesaggio hanno nei suoi film una rilevanza ontologica, quasi psicanalitica, oltre che fisica. Riguardano anzitutto il suo intimo patrimonio memoriale: c’è la Parigi delle banlieu di 35 rhums (2008) e il rendersi fantasmi nella periferia; c’è il Camerun – suo paese d’origine – di Chocolat (1988) e l’Africa di Maria/Isabelle Huppert in White Material (2009), spazi che sublimano un vero e proprio stato d’essere dove «il conflitto razziale» – scrivono Pier Maria Bocchi e Luca Malavasi – «viene declinato in termini sensuali e primitivi» non per tematizzare o “politicizzare” la questione ma per ricercarne l’essenzialità, il sentimento delle cose cui alludeva anche Frodon parlando di arte medianica.
Partendo da questi presupposti, nel suo ultimo film Claire Denis instaura un rapporto diverso con lo spazio. Lo spazio riguarda il cosmico, l’inestinguibile ed eterno in cui non ci sono frontiere né limiti, abbacinante per quei galeotti puniti per non aver risposto agli obblighi terreni; ma dopo un po’ lo stesso spazio si sarebbe rivelato come una seconda condanna, questa volta non negoziabile. Come in Trouble Every Day, Denis si chiede a che punto possono spingersi un corpo e il desiderio di un corpo quando non si hanno costrizioni o vincoli di alcun tipo.
Allo spettatore non è dato capire dove o a cosa porterà questo peregrinare dalle parti dell’anima e la scrittura contempla così un bisogno immediato, quasi epidermico, di far leva sul dinamismo dei sensi. Come in una performance non molto distante dal teatro-danza tutto incede per fortissimi contraccolpi emotivi nella già citata danza stregonesca di Dibs e nel distendersi dei corpi di Monte e della figlia seguiti dal sonoro avvolgente dei Tindersticks. E alla stregua dei più noti racconti post-apocalittici, è nel finale aperto, in quel primo piano sfolgorante della figlia, che si annida probabilmente l’idea di un domani: di una speranza e nuova umanità.
Riferimenti bibliografici
P.M. Bocchi, L. Malavasi, a cura di, Claire Denis, Bergamo Film Meeting 2009.
R. Menarini, Il corpo nel cinema. Storie, simboli e immaginari, Pearson, Milano 2015.
S. Hayward, Claire Denis’s Post-Colonial Films and Desiring Bodies, in “L’esprit créateur”, Johns Hopkins University Press 2002.
High Life. Regia: Claire Denis; sceneggiatura: Claire Denis, Jean-Pol Fargeau; fotografia: Yorick Le Saux; montaggio: Guy Lecorne; musiche: Stuart Staples; interpreti: Robert Pattinson, Juliette Binoche, André Benjamin, Scarlett Lindsey, Mia Goth, Agata Buzek, Lars Eidinger, Claire Tran, Ewan Mitchell, Gloria Obianyo,Victor Banerjee; produzione: Pandora Film Produktion, Alcatraz Films, The Apocalypse Film Company, Mandants; distribuzione: Movies Inspired; origine: Francia, Germania, Regno Unito, Polonia, Stati Uniti d’America; durata: 110’.