“J’adore les femmes. Rien que j’aime plus que les femmes”. A pronunciare queste parole non è Bertrand Morane, il seduttore protagonista del film di Truffaut, ma Helmut Newton, nel corso di un’intervista televisiva del 1979. Sorriso ironico e sornione, il fotografo si difende dalle accuse di Susan Sontag la quale affermava di trovare il suo lavoro misogino e déplaisant; nell’udire le parole di Newton, la scrittrice e teorica concludeva che, appunto, ad affermare di amare le donne sono anche un gran numero di uomini misogini.
Sarebbe sufficiente questo scambio di battute per dimostrare che chiunque provi ad addentrarsi in una riflessione sul lavoro di Newton si trova sin da subito costretto a intraprendere una strada non priva di insidie, un terreno instabile e sdrucciolevole dove la minaccia maggiore sembra essere l’imparzialità stessa. Anarchico? Misogino? Volgare? Geniale? Rivoluzionario? Incompreso? Provocatore? È possibile procedere per sineddoche, la parte per il tutto? La tentazione è forte. L’immagine di King of kink che il fotografo ha costruito su di sé in oltre cinquant’anni di carriera appare, di fatto, monolitica. Se interpellato, Newton risponderebbe – citando se stesso – che “bisogna sempre essere all’altezza della propria cattiva reputazione”. E forse potrebbe anche bastare così. Ma scrivere è una cosa seria e, per quanto rischioso, è necessario andare avanti.
E per poter proseguire bisogna prima di tutto volgere lo sguardo indietro, tornare dove l’immagine è potenza e non già atto, e dunque partire da Berlino, lì dove il fotografo non è ancora Newton ma Helmut Neustädter. Nato da una ricca e borghese famiglia ebrea-tedesca, a metà degli anni ’30 il giovane Helmut inizia a lavorare nello studio della fotografa di moda Yva. È in questo breve periodo come apprendista e collaboratore di madame – nel 1938 è costretto a scappare da Berlino per sfuggire alle leggi razziali – che il-non-ancora-Newton matura il gusto per una fotografia di moda sensuale, elegante, non più didascalica. Ma è certo nell’influenza esercitata dalla regista Leni Riefenstahl che è possibile rintracciare la genesi della rappresentazione del corpo femminile come celebrazione di un corpo plastico, potente, glorioso. Nella serie Big Nudes (1981) questa monumentalizzazione del corpo si estremizza radicalmente anche grazie all’utilizzo di un formato insolito, che Newton prende in prestito dalla polizia tedesca alle prese con la lotta al terrorismo della Rote Armee Fraktion, e che stampava i manifesti dei ricercati a grandezza naturale. Il formato si ingigantisce, blow-up, lo scatto è frontale, i corpi enfatizzati. Salire le scale della Helmut Newton Foundation, camminare davanti alle fotografie esposte significa essere letteralmente sovrastati dall’immagine imperiosa delle modelle.
Ma l’influenza berlinese non si esaurisce qui, anzi: è un riverbero continuo, il sottofondo costante dei suoi lavori. Nel 1973 scatta la serie di fotografie Charlotte Rampling at the Hotel Nord-Pinus. Tra queste, la più famosa è di certo quella in cui l’attrice, nuda, è seduta sul tavolo; i piedi appoggiati sulla poltrona, la testa girata di tre quarti, sfiora con la mano un calice di vino, probabilmente; sullo sfondo uno specchio, intorno il lusso della camera dove i matador osservavano i rituali di vestizione prima della corrida. L’immagine rispetta l’estetica di Newton, le sue “leggi”, ma la Rampling è anche corpo filmico, e la fotografia sembra il perfetto fil rouge che unisce La caduta degli dei di Visconti e Il portiere di notte di Liliana Cavani, che sarebbe arrivato in sala a distanza di un anno. Newton si appropria di un immaginario filmico che tuttavia gli è già proprio, sovvertendolo, depotenziandolo, re-immaginandolo. Lo stesso rapporto con la Riefenstahl, che fotograferà nel 2000 e con la quale manterrà un rapporto di amicizia fino alla morte della regista – di lei dirà a Gero von Boehm, regista di Helmut Newton: The Bad and The Beautiful (ancora inedito in Italia), che la Riefenstahl “era, purtroppo, un dannato genio” – sembra essere la cifra di un legame con la Berlino a cavallo delle due guerre mai del tutto reciso.
Nel 1961 arriva a Parigi dopo un lungo peregrinare tra Singapore prima, dove giunge appena fuggito dalla Germania nazista, e l’Australia dopo, e inizia a lavorare per Vogue Paris. Dovranno tuttavia passare quindici anni prima che il fotografo pubblichi i suoi lavori personali: nel 1976 esce White Women, la sua prima raccolta di nudi scattati off-set, tra uno servizio e l’altro, ma a causa del titolo viene accusato di razzismo. Si difenderà dicendo che in tutto il volume non c’è una donna di colore.
È lui stesso a definirsi voyeur – “se un fotografo dice di non essere un guardone allora è un idiota”– e amante del cattivo gusto, mentre non amava che si dicesse di lui che era un artista; di certo è stato un innovatore, capace di cambiare radicalmente il modo in cui la fotografia di moda era stata pensata fino a quel momento. Se Richard Avedon, infatti, aveva fatto uscire le modelle fuori dallo studio fotografico per portarle tra le strade della città – o addirittura tra gli elefanti: celebre è la foto di Dovima in abito Dior – Newton ambienta i suoi scatti in ville e hotel, piscine, in mezzo al lusso spesso decadente, andando oltre il mite del proibito e spingendosi al paradosso di scattare foto di moda senza moda. Mise en scène ma con una base di verità: Newton legge tra le pieghe della società, scruta tra le fantasie più pruriginose ri-dandogli forma nei suoi scatti.
Come in una piéce, il fotografo dirige e le modelle recitano per lui: e dove ogni scatto è un frammento di un tempo più complesso, costruito. Di una storia. I ruoli si capovolgono: nelle fotografie di Newton sono le donne a prendere il potere. Come il celebre scatto Rue Aubriot – la strada dove il fotografo e la moglie, June Browne, vivevano – che ritrae una garçonne vestita in abiti Yves Saint Laurent fumare di notte tra le strade di Parigi. Newton prende in prestito generi diversi, mescola glamour, fotografie di scene del crimine e repertorio sadomaso, attinge al cinema noir con precisi omaggi a Hitchcock, guarda alla storia dell’arte, gioca con i formati – come il caso della già citata serie Big Nudes, o come il catalogo Sumo realizzato in edizione limitata e dal peso di 30 chili, venduto insieme all’apposito tavolo realizzato da Philippe Starck. Ma ogni innovazione, si sa, viene guardata con sospetto: perché lo sguardo è abitudinario, mentre il mai-tentato-prima richiede nuove categorie per poter essere compreso.
Nel 1981 gli viene chiesto uno scatto per gli impermeabili maschili: Newton sceglie se stesso come modello. Scattata con una lente grandangolare, la foto inquadra non solo Newton – che indossa l’impermeabile – alla spalle della modella – nuda – entrambi davanti a uno specchio, ma anche la moglie June; alle spalle della donna una porta – o finestra – aperta che mostra una trafficata strada di Parigi. Cosa vediamo noi? Meglio: in questo continuo gioco di rimandi, in cui noi ci troviamo davanti allo specchio il cui riflesso tuttavia ci esclude, chi guarda, chi è guardato? In fondo, sembra chiederci Newton: chi è il voyeur? Newton e las meniñas.
Il 31 ottobre di quest’anno Helmut Newton avrebbe compiuto cento anni. Chissà se avrebbe trovato ancora il modo di scandalizzare, di provocare, o se, nell’iper-sessualizzazione costante dei corpi in cui ci troviamo, non avrebbe trovato tutto fin troppo di cattivo gusto, e dunque noioso. Non lo sapremo mai. Nel gennaio del 2004, partito da Chateau Marmont con la sua Cadillac, Helmut Newton trova la morte nello schianto contro un muro su Sunset Boulevard, una tra le strade cinematografiche per eccellenza. Come se anche per morire, bisogna essere all’altezza della propria reputazione.
Helmut Newton (Berlino 1920 – Los Angeles 2004)