Freedom is a place
of continuous becoming,
like this installation.
R. W. Gilmore
Ci sono metafore che sono spazi liberati dell’immaginario in cui ripensare il reale; quando vengono figurati e percorsi insieme, rimodellano il possibile, disegnando alternative oltre i paradigmi già tracciati, facendo scaturire la scintilla del nuovo dal clinamen dell’intersezione. Se ad incontrarsi sono punti di partenza molto distanti, possono innescarsi mutamenti tanto risonanti da coinvolgere ampi raggi di senso, provocando rivoluzioni che influenzano i modi di sentire, intendere, agire comune. E se l’arte è considerabile per eccellenza spazio di costruzione di metafore, forgia simbolica dell’immaginario collettivo, il suo rivoluzionarsi è particolarmente significativo per la trasformazione della visione del mondo che viene trasmessa.
Stranier* ovunque è stata un’edizione della Biennale che ha rivoluzionato l’idea d’artista tradizionalmente esposto a Venezia: il curatore brasiliano Antonio Pedrosa, invitando ad indagare la complessità del termine “straniero”, si è focalizzato su “l’estraneità” e le “stranezze” dell’arte non convenzionale, prediligendo artist* outsider, queer, folk, indigen*, che non avevano mai avuto un ruolo così centrale nel contesto dell’esposizione internazionale. La loro presenza preponderante ha fatto che sì che gli spazi delle esposizioni si tingessero dei toni delle loro palette variegate, portando alla luce le molteplicità che incarnano; i chiaroscuri di corpi nascosti e temi silenziati hanno trovano rappresentazione, facendo trasparire alcune dinamiche escludenti della manifestazione, per certi versi ancora legata alle dinamiche di potere patriarcali e capitalistiche che marginalizzano gli sguardi altri. Le artiste-curatrici del padiglione portoghese Greenhouse hanno operato, in questo contesto, una doppia rivoluzione, questionando sia il modo di fare arte (destituendo i ruoli canonici, che separano gerarchicamente curatore e artista, setting e opere, performers e pubblico); sia sovvertendo la narrazione identitaria della nazione che rappresentano (dando voce all’ancestralità dell’Africa lusofona ed alla cosmovisione dei suoi corpi-territori migranti), attraverso un approccio intersezionale orientato dall’ecologia della cura.
Queste molteplici rivoluzioni sono state possibili grazie alla terra, che è stata, al contempo, idea chiave (di inquadramento tematico), materia prima (di creazione empirica), e tramite (di connessione e riconfigurazione) del progetto-processo proposto. Sorto dall’incontro tra un’artista visuale, Monica De Miranda, una storica militante, Sonia Vaz Borges, ed una coreografa, Vania Gala – tutte e tre ricercatrici portoghesi di origini africane, GreenHouse è un fenomeno ibrido, tra l’installazione artistica performativa e l’assemblea politica, il giardino e la scuola: uno spazio liberato che diventa ecosistema accogliente per un denso programma di azioni interdisciplinari: un percorso ibrido, tra teoria e pratica, trasforma le sale della ex biblioteca di Palazzo Franchetti in un Giardino Criolo, un archivio vivente in cui le immagini si moltiplicano attivando un caleidoscopio meticcio che include il visitatore nella reinvenzione di un immaginario alternativo ecologicamente comune.
È il suolo lo straniero dell’arte protagonista nel percorso espositivo afro-portoghese. Inteso, sia fisicamente, come terreno che permette la crescita delle piante, che metaforicamente, come sostegno che garantisce possibilità d’esistenza e di resistenza della pluralità di forme di vita, è collocato alla base delle installazioni, alcune botaniche, altre tecnologiche, incarnando la metafora biologica nella materialità espositiva ed esplicitando la sua funzione di mediumprimigenio. Le oasi di piante-immagini in movimento sembrano suggerirci che può esserci comunicazione solo grazie al suolo ed alla rete di connessioni rizomatiche che si intrecciano al suo interno, rendendo la vita possibile. Le isole di terra disegnano un arcipelago in cui crescono piante di origine tropicale, coltivate secondo principi dell’agricoltura sintropica. Il riferimento esplicito è al jardim criolo di Glissant: coltivazioni clandestine che popolazioni africane schiavizzate autoproducevano per nutrirsi, giardini densamente popolati in cui le specie si intrecciavano sostenendosi a vicenda, resistendo alla monocultura delle piantagioni. Presi come modello d’interazione sinergica nella poetica relazionale dell’intellettuale martinicano, erano un modo per parlare della creolizzazione come ibridazione culturale, al di là degli schemi colonialisti, sottolineando la ricchezza germinativa della diversità integrata che non conosce estraneità, nazionalismi o specismi.
In Greenhouse il giardino creolo ritorna come figura incarnata di un processo artistico plurale, meticcio ed interspecifico: non ci sono più opere acquistabili separatamente e collezionabili staticamente, ma forme di vita intersecate che necessitano di cura reciproca, che si plasmano vicendevolmente e mutano costantemente. Si muovono le piante nella loro ricerca della luce e le persone che attraversano gli spazi tra le isole. Corpi-territori in movimento abitano gli schermi che proiettano le videoinstallazioni: figure fantasmatiche di migranti afrodiscendenti trapiantati dalle terre d’origine danzano tra zone selvatiche della periferia lisboeta in Transplanting; mentre in Weaving stories and memories while walking, dei griot contemporanei narrano esperienze di resistenza provenienti dalla foresta guineense, dove l’agronomo indipendentista Amilcar Cabral ha sperimentato pratiche educative intergenerazionali militanti che abbracciano coscienza critica, crescita spirituale e tecniche di sopravvivenza, referenze ispiratrici per le artiste-curatrici. Voci e movimenti si intrecciano anche nelle performance dal vivo, come in Passa Folhas, in cui sculture e strutture diventano supporti d’inversione, del senso di marcia e del senso comune, nei gesti e nei suoni trasmessi dai corpi in gioco.
Ad animare il network del giardino anche esperienze di co-pensiero eco-femminista che hanno esplorato la connessione tra modi di coltivare, pensare e creare. Con la fisica-filosofa Vandana Shiva, un’immersione nelle dinamiche di cura del suolo ha suggerito quanto l’arte possa essere uno strumento fondamentale per la fertilizzazione dell’immaginario, perché «solo decolonizzando le menti dalle monoculture che impoveriscono la capacità di pensare altrimenti, è possibile dare forma a futuri sostenibili che salvaguardino la biodiversità». Con la geografa abolizionista Ruth Wilson Gilmore, un focus sulla libertà come spazio liminale della trasformazione ha posto l’arte come modello plastico in cui riarticolare diverse forme di emancipazione, perché «per far sì che questa liberazione avvenga, sia nei territori che nelle menti, è necessario riconoscere che non c’è separazione tra natura e cultura, storia e geografia, arte e scienza, ed accedere a spazi di co-creazione in cui nuovi futuri diventano possibili».
Se, come ricorda Gilmore in Grounded soil, «non è un caso che molti rivoluzionari abbiano studiato agronomia», allora , sembra suggerirci il padiglione afro-portoghese, è dalla terra che bisogna ripartire per nutrire l’immaginario rivoluzionario di un futuro possibile oltre la crisi climatica. E l’arte contemporanea, se si fa pratica relazionale, può favorire la coltivazione di una sensibilità ecologica che diventi cultura dell’inappropriabile e libertà radicale: una zona liberata in cui interagire, un processo di trasformazione costante con cui entrare in risonanza, una danza di trasmissione di gesti e saperi a cui partecipare. Come Greenhouse, esempio vivente di un’arte biodiversa che si fa corpo-territorio migrante, che presenta nuove metafore in cui pensare e crea spazio-tempi altri in cui divenire giardino, creolo.
Riferimenti bibliografici
M. De Miranda, V. Gala (edited by), GreenHouse. Art, Ecology, Resistance. Skira Editions, Losanna 2024.
R.W. Gilmore, Change Everything: Racial Capitalism and the Case for Abolition, Haymarket books, Chicago 2023.
E. Glissant, Poetica della Relazione, Quodlibet, Macerata 2005.
M. Mies, V.Shiva, Ecofeminism, Fernwood Publications, Nova Scotia 1993.
Greenhouse, il Padiglione del Portogallo, 20 Aprile 2024 – 24 Novembre 2024, Biennale Arte 2024, Venezia.
Questo articolo fa parte delle attività di disseminazione e public engagement previste dal progetto di ricerca CAOS – Catastrophes of Southern Italy. Photogénie and Remediation of Natural Disasters, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca nell’ambito del programma PRIN 2022 PNRR.