Tommy (Anson Boon), diciannove anni e un’indole violenta, dopo una notte di abusi tra alcol e droghe viene rapito in mezzo alla strada e si sveglia in una cantina con le catene al collo. Lo scopo dei suoi rapitori, una famiglia apparentemente tranquilla, è semplice: rieducare Tommy per trasformarlo in un bravo ragazzo. Ogni cattivo comportamento è punito con severità, mentre la buona condotta viene ricompensata con piccoli privilegi. Così, dopo umiliazioni e innumerevoli tentativi di fuga, il giovane teppista finisce per adattarsi alle regole, fino a ottenere una camera tutta sua e il permesso di muoversi per la casa con una catena più lunga. Tommy è il protagonista di Good Boy del regista polacco Jan Komasa, un thriller satirico e provocatorio che riflette sulle dinamiche del vigilantismo e della sindrome di Stoccolma.
Da fuori la famiglia di carcerieri, immersa in libri e arte, sembra essere mossa dai valori illuminati. I suoi membri si chiamano con nomignoli affettuosi (“luce”, “principessa” e “sole”) e conducono una vita tranquilla e isolata dal resto del mondo. Sulla soglia di quell’angolo di paradiso vittoriano che è la loro casa, però, si aprono le porte dell’inferno. Chris (Stephen Graham) dietro la facciata di buon padre di famiglia nasconde un animo nervoso e aggressivo. Sua moglie Kathryn (Andrea Riseborough), sempre vestita in kimono floreali, appare distaccata e depressa: i libri e gli oggetti a casa non vanno spostati per non farla arrabbiare. Il loro figlio Jonathan (Kit Rakusen) convive con il terrore di essere severamente punito per ogni minimo sbaglio. I mobili sono graffiati dai segni del “discepolo” precedente, che sembra abbia fatto una brutta fine. L’idillio familiare è quindi intessuto di paura, violenza e un passato oscuro.
Komasa mostra come una persona in una posizione vulnerabile viene sorvegliata per poi essere punita o manipolata. Per Foucault «il potere disciplinare si esercita rendendosi invisibile […]. È il fatto di essere visto incessantemente che mantiene in soggezione l’individuo» (2014) e la famiglia di Chris incarna appieno questo meccanismo panoptico: ogni gesto di Tommy è osservato, giudicato e corretto. Chris abusa del proprio potere non solo per rieducare Tommy, ma anche per intimidire Rina (Monika Frajczyk), un’immigrata illegale che viene assunta come donna delle pulizie. Usando una valigetta con le armi, ma anche il proprio potere di persuasione, il capofamiglia incute lo stesso terrore in due persone completamente diverse, privando l’uno della sicurezza fisica e l’altra della libertà morale. Anche Kathryn partecipa a questo meccanismo di dominio. Dopo aver fatto fumare al figlio l’intero pacchetto di sigarette come punizione per averne provata una, gli dice algida: “Distruggi ciò che ti distrugge”. Ma in realtà i veri distruttori qui sono lei e il marito. Ciononostante, invece di volgere la narrazione verso la ribellione degli oppressi, Komasa dimostra come essi obbediscono, anche con motivazioni poco convincenti, ai loro padroni. Tommy e Rina arrivano infine a interiorizzare la violenza, assumendola come benedizione e non punizione: lui inizia a provare affetto per i suoi rapitori e lei trova nella casa una sicurezza che il mondo esterno non le offre.
Riprendendo Foucault, “la prigione continua […] un lavoro cominciato altrove” (ivi): la casa di Chris è una prigione che riproduce, in scala domestica, la logica della società disciplinare. In questo senso Good Boy dialoga con Dogtooth (2009) di Yorgos Lanthimos, dove l’educazione familiare diventa un meccanismo di isolamento e controllo, e con Il sacrificio del cervo sacro (2017), in cui la vendetta morale assume i tratti di un rituale punitivo. In entrambi i casi, come nel film di Komasa, la violenza è travestita da pedagogia e la casa diventa il laboratorio di una morale distorta. Allo stesso modo, Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick mette in scena il paradosso della correzione attraverso la crudeltà: la punizione non redime, ma riproduce la violenza del potere che pretende di normalizzare. Komasa, come questi autori, suggerisce che la disciplina non libera l’individuo, ma lo addestra e lo controlla, proprio come il sistema che lo ha creato.
Good Boy ci pone una domanda: è possibile sopprimere il proprio essere malvagi e perversi tramite la crescita intellettuale? Insieme a Tommy siamo costretti a rivedere dei video sui social media, che mostrano le sue atrocità precedenti. Komasa delinea la metamorfosi di Tommy da aggressore sconsiderato a uomo capace di compassione e intelligenza, ma da spettatori rimaniamo indecisi. Non c’è dubbio che il film classico Kes (1969) di Ken Loach commuova e che una partita a scacchi possa stimolare l’intelligenza, ma nel caso di Tommy sembra logico pensare che abbiano avuto un peso maggiore le catene al collo, il taser e lo spray al peperoncino. La paura della punizione fisica lo ha reso un soggetto docile o, per dirla con Foucault, un “corpo addestrato” (ivi): non tanto attraverso l’apprendimento, quanto tramite la coercizione.
Gradualmente Tommy trasforma rabbia e disprezzo in accettazione e simpatia verso la “famiglia adottiva”. Il piano di fuga avviene con successo, ma l’obiettivo – tornare alla vita precedente – perde di senso e vivere insieme ai padroni diventa la sua normalità. Tornando alla loro casa con una nuova “alunna”, Tommy, nel suo atto finale, mostra che l’unica libertà a lui concessa nella vita è scegliere la propria prigione. Non terrorizza più gli innocenti, ma prende parte anche lui alla rieducazione forzata delle persone traviate, provando così che la sua violenza non è scomparsa, ma ha semplicemente preso una nuova forma.
Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 2014.
Good Boy. Regia: Jan Komasa; sceneggiatura: Bartek Bartosik, Naqqash Khalid; fotografia: Michal Dymek; montaggio: Agnieszka Glinska; musiche: Abel Korzeniowski; interpreti: Stephen Graham, Andrea Riseborough, Anson Boon, Kit Rakusen; produzione: Skopia Film, Recorded Picture Company; origine: Polonia, Gran Bretagna; durata: 110′; anno: 2025.