Attorno a noi, nella quotidianità del mondo visibile, il suono ha origine da ogni cosa materica. È questo il pensiero consapevole da cui trae forza Gloria!, l’esordio alla regia di Margherita Vicario presentato al 74° Festival del cinema di Berlino, in cui il suono irrompe nel film e diventa ritmo, finendo per guidare la scansione del montaggio e la colonna sonora. Come ci informa la didascalia introduttiva, la narrazione si apre negli spazi dell’istituto religioso Sant’Ignazio, da “qualche parte vicino Venezia”, agli albori del 1800. Le orfane che vi crescono tra le sue mura vengono educate alla conoscenza della musica, senza poter partecipare all’effettivo lavoro creativo. Della musica pensata, composta, suonata, del suono che anima visivamente gli oggetti scenici, le giovani donne non possono beneficiare, costrette a mantenere un composto silenzio.

Ed è nel silenzio che vive la giovane governante Teresa (Galatea Bellugi), partecipando esternamente ai suoni prodotti dall’istituto, senza possederne (almeno in apparenza) uno interno, personale come la voce. Tuttavia è dalla forza del suo sguardo, amalgamato al fluido movimento registico di Vicario dato dall’utilizzo della macchina a mano, che veniamo proiettati nella quotidianità cenciosa e austera in cui le giovani donne sono costrette a vivere. Si origina da ciò una distanza simbolica, la cui resa in immagini viene sottolineata dall’espressività fotografica, divisa per sezioni di colore: una piramide di potere interno che regge l’ossatura del Sant’Ignazio. Al vertice della gerarchia il colore nero, indossato da Perlino (Paolo Rossi), il prete compositore dell’istituto religioso circondato da un’aura di segreti da nascondere. Al di sotto troviamo la massa celestina dei vestiti delle educande, tutti uguali; per poi arrivare al vecchio vestito sbiadito di Teresa, anonimo, senza alcun colore evidente.

La differenziazione cromatica affidata ai costumi di scena, specchio importante per un film a carattere storico, serve a far emergere una condizione femminile ancorata all’impossibilità di rivendicare il lavoro di composizione musicale. Nello spazio iconografico messo in scena, dove il mantenimento del potere ecclesiastico (così come gli scandali da contenere) sembra riguardare l’atto del componimento inteso come creazione, i corpi di donna al suo interno sono costretti in un ambiente dove l’avvento stesso della musica viene soppresso. Dunque quello che viene negato, nel concretizzarsi di un legame tra femmineo e suono, è lo stesso affermarsi del corpo di donna, la mancata libertà ad esercitare un ruolo proprio che possa condurle ad un riconoscimento sociale.

A stravolgere la routine dell’istituto accadono però due eventi che, unendosi nella temporalità del film, portano al manifestarsi della realtà storica ricreata. Da un lato i preparativi di un concerto in onore di Papa Pio VII, che visiterà buona parte delle chiese venete; dall’altra una scoperta casuale, portatrice di un oggetto che finirà per legarsi alle sorti delle giovani donne. La narrazione mostra così la creazione del componimento musicale come esercizio di autorità maschile, nonché come fautore di un’espressività creativa che, invischiata in dinamiche di potere, diventa piatta, senza vita

Infatti seguendo la trama, più è forte il dominio del Maestro di cappella attorno alle educande e, di rimando, anche su Teresa – per cui sembra provare una particolare avversione – più sarà ampia la sua difficoltà nel comporre. È mostrando l’impossibilità – quasi fisica per l’uomo, che lo renderà via via più affaticato e rozzo – di dare vita alla musica per il concerto, che l’atto della creazione passerà successivamente in mano alle giovani donne, rompendo quel silenzio in cui erano costrette.

La frattura fa irruzione con un pianoforte nascosto nel deposito del Sant’Ignazio, celato alla vista in uno spazio di privazione e silenzio che ricalca quello femminile. Come se l’esistenza di un simile strumento musicale, la cui creazione era ancora una novità per l’epoca storica, potesse sfaldare dall’interno il dominio istituito; “diavoleria” sarà l’appellativo rivoltogli sul finale, spaventosamente vicino al pericolo del peccato, della perdizione. Simbolicamente l’oggetto viene accostato a quei giovani corpi occultati che, nel delinearsi della realtà narrativa, subiscono ogni tipo di violenza fisica e psicologica, al fine di estirpare il peccato di cui sembrano portatrici solo perché femmine.

Il pianoforte restituito al suono, diventa così l’estensione stessa del corpo delle donne, la possibilità di instaurare un legame di sorellanza in cui riconoscersi, in cui raccontarsi, ma soprattutto in cui dimostrare di essere delle compositrici. L’affermarsi del corpo femminile, nell’intenzione autoriale di Margherita Vicario, è legato al diritto di rivendicare un ruolo anche all’interno dell’istituto, che si identifica ibridamente con un orfanotrofio, con un convento e con un conservatorio: uno spazio triadico, colpevole di una negazione volta a sradicare le radici affettive, sociali e storiche delle protagoniste.

Sarà il suono stesso a guidare il gruppetto delle quattro educande – Lucia, il primo violino dell’istituto, Bettina, Prudenza e Marietta – verso lo strumento, e dunque verso Teresa. Ella è la prima a scoprirlo (letteralmente, svelandolo dal lenzuolo che lo ricopriva), la prima ad usarlo, la prima a rivendicarlo come un proprio possesso. Ancora prima di vedere l’oggetto, di conoscerlo nella sua forma materica, sarà la manifestazione acustica ad interrompere la costrizione del silenzio con l’onnipresenza del suono.

Non a caso la musica del gruppetto protagonista  – originandosi nel buio della notte per discostarsi dalla privazione quotidiana, guardando ad una risalita verso la luce del sole – è profondamente diversa rispetto a quella prodotta fino ad ora nell’istituto. Le cinque giovani donne si ritroveranno attorno al pianoforte sera dopo sera, componendo, cantando, dando voce ai loro pensieri, anche quelli più semplici: la musica, portatrice di una dimensione festante, alimenterà la ricomparsa del loro sentire femminile.

La colonna sonora del film, legando lo sguardo cinematografico di Vicario al suo lavoro da cantautrice (del quale si ritrovano alcune contaminazioni pop tipiche del suo stile musicale), è un’estensione in asincrono rispetto agli anni diegetici. Una cifra stilistica che trova nel dato storico il suo status di trasgressione, ribellione e rivendicazione, per restituire, nello spazio romanzato di un passato che si avvicina al presente, voce, corpo e suono alle donne compositrici, congiungendo così la memoria musicale all’esordio registico.

Gloria! Regia: Margherita Vicario; sceneggiatura: Anita Rivaroli, Margherita Vicario; fotografia: Gianluca Palma; montaggio: Christian Marsiglia; musiche: Davide Pavanello, Margherita Vicario; interpreti: Galatéa Bellugi, Carlotta Gamba, Veronica Lucchesi, Maria Vittoria Dallasta, Sara Mafodda, Paolo Rossi; produzione: Tempesta, RAI Cinema, Tellfilm; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Svizzera; durata: 105’; anno: 2024.

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