«Non basta che due o tre uomini si incontrino perché siano insieme. Sono come marionette i cui fili sono manovrati da mani diverse. Solo quando un’unica mano le muove, le investe dall’alto una comunanza che le costringe ad inchinarsi o a battersi» (Rilke 1995, p. 77). È il Rilke degli Appunti sulla melodia delle cose a suggerire una prima chiave di lettura dell’Eracle di Emma Dante, con cui si è inaugurato il 54° Festival del Teatro Greco di Siracusa. Avevo già rintracciato, in filigrana, a proposito della liturgia performativa de Le sorelle Macaluso una certa consonanza tra la meditazione rilkiana e l’imagery della regista, se non altro nel vibrare della danza di Maria, donna-angelo sospesa fra l’estasi del volo e la vertigine dello schianto.
Rispetto alle rarefatte atmosfere di quel finale mozzafiato, in Eracle si fa largo una diversa temperatura che non esclude però l’affacciarsi di puntuali riflessi rilkiani. La metafora della marionetta appartiene intimamente al codice visivo dello spettacolo, soprattutto in riferimento alla caratterizzazione posturale di Eracle («marionetta omicida») e Teseo, l’uno sempre in preda a un furore cieco, spasmodico, l’altro invece votato a una meccanicità pietosa, a tratti perfino commovente, ma l’eco rilkiana sembra sostenere l’intero progetto della scrittura scenica di Dante, che obbedisce a quel principio di armonia secondo il quale l’arte deve partecipare di «cose e profumi, sentimenti e ore passate, crepuscoli e desideri» (ivi, p. 79).
L’erratica avventura di Eracle si consuma lungo un binario sconnesso, tra il furore della battaglia e lo sgomento dell’inchino (per recuperare un’altra immagine dall’esergo da cui siamo partiti), e precipita per volere di Era nel gorgo della follia fino all’uccisione della moglie Megara e dei tre figli. Di fronte all’orrore per un crimine così atroce, Eracle vorrebbe uccidersi ma la sua mano sarà fermata dall’amico Teseo, che lo convincerà a seguirlo e a voltare le spalle a quel dolore indicibile. Siamo così al cospetto di una parabola eroica atipica, al punto che «nessuno è più sovrumano e mostruoso di lui» (Ieranò 2018, p. 72); l’anomalia di questo campione del coraggio e dei nervi, capace di imprese leggendarie ma destinato allo scacco, viene compendiata da Euripide attraverso un costante slittamento del tragico verso toni da commedia, attestando un’insolita ibridazione di stili e paradigmi espressivi. L’instabilità dell’impianto drammaturgico, caratterizzato da repentini cambi di registro, ha nutrito il talento visionario di Dante, decisamente a suo agio nel gestire l’ambiguità delle forme miste – come ha evidenziato Massimo Fusillo nella sua intensa lettura del Macbeth.
Nelle sue mani questa scombinata tragedia diviene «un gioco teatrale con regole nuove» (Dante 2018, p. 21), nel quale un cast di attrici interpreta i ruoli principali ribaltando la convenzione e sovvertendo l’ordine del discorso. La scelta di performare il genere delle dramatis personae produce una frizione nel codice della rappresentazione e rilancia l’idea di un teatro da viversi come luogo di sollevamenti, nella doppia accezione estetica e politica proposta da Didi-Huberman. Anfitrione, incarnato da una superlativa Serena Barone, è forse la massima espressione della rivolta orchestrata da Emma Dante, perché somma su di sé la fragile declinazione di una paternità senza più vigore e il piglio di una femminilità solo apparentemente cancellata dal trucco. La sofferta intemperanza del personaggio, sempre pronto a dialogare con Zeus e perfino a bestemmiare il suo nome, diviene il perno di una messa in scena che confonde e raddoppia le identità, che mescola umori e passioni, nel segno di un’ormai inconfondibile cifra neobarocca.
La minuta corporeità di Anfitrione, segnata dall’età e dagli affanni, dialoga con la pensosa deformità del coro, un gruppo di dodici anziani che diviene protagonista di sorvegliatissime coreografie. Accartocciati in pose per lo più innaturali, “scricchiolanti”, esito del minuzioso studio di Manuela Lo Sicco e della stessa Dante, i vecchi si fanno espressione della vitalità straziata dell’ultima stagione dell’esistenza, tema caro alla regista fin da Ballarini e recentemente riproposto in La scortecata, a riprova della ricorsività di alcuni nodi all’interno dell’immaginario dell’autrice. La mobilità del coro segue traiettorie precise che annoverano la consueta attenzione a stilemi figurativi, già sperimentata nel tormentato disegno vettoriale di Bestie di scena ispirato a Masaccio e qui modellata su topoi di estrazione fiamminga; una esplicita vocazione coreografica, che combina la vertiginosa geometria del ballo dei Dervisci con l’espressività della Danza serpentina di Loïe Fuller, senza rinunciare alla paradossale fissità dei tableaux vivants che in questa occasione recupera una stretta analogia con i gruppi statuari di matrice classica. Lungi dall’essere solo «parole/e ombre di fantasmi apparsi in sogno» (Euripide 2018, p. 77), i dodici anziani del coro incarnano quel principio di speranza più volte evocato da Anfitrione e sembrano essere – più di Eracle – le figure di questo «dramma della riconciliazione» (Dante 2018, p. 21).
L’equilibro fra pieni e vuoti annunciato dalla scenografia di Carmine Maringola aggiunge al quadro generale un tratto di grande evidenza: la parete di marmo intarsiata di foto rinvia alla placida “corrispondenza di amorosi sensi” dei cimiteri, mentre la grande vasca centrale colma d’acqua rappresenta una sorta di lavacro, in cui è ancora possibile purificarsi e ritrovare – anche solo per brevi istanti – la letizia dei giorni di festa. La circolarità fra vita e morte è un motivo caro al teatro di Emma Dante, spesso accompagnato da una forte componente liturgica; in ossequio al rito di una religiosità non ortodossa il muro votivo viene alleggerito dal continuo oscillare di croci di legno, che proiettano entro il raggio del palco il miraggio larvale di Don Chisciotte, a mitigare la follia di Eracle.
La complessa scrittura scenica di Dante, scandita anche dalla preziosità dei costumi e dalla vibrante qualità del tappeto sonoro, merita un’indagine più approfondita ma intanto, in attesa di nuovi sguardi, provo a richiamare l’intensità accecante di una delle immagini-guida dello spettacolo, che diviene una sorta di rima visuale nel passaggio da un quadro a un altro. A ben guardare, infatti, l’Eracle immaginato dalla regista propone una vera e propria sinfonia di abbracci che contrappuntano l’azione e rendono immediatamente visibile la memoria del sangue, la visceralità delle relazioni in gioco nonché il presagio dell’abbandono. Come nel più autentico teatro-danza di Pina Bausch, che agisce spesso sotto traccia nei lavori di Emma Dante, la prossemica dei corpi non può prescindere dalla reciprocità del contatto, dal magnetismo del tronco e delle braccia, che descrivono le linee della tenerezza e della disperazione.
L’abbraccio, nell’alfabeto gestuale dell’Eracle, non accompagna momenti di estasi o di gioia ma segna un istintivo moto dell’animo, uno spasmo che anticipa di poco il momento dello strappo, la caduta di ogni illusione. È Megara a inaugurare la catena degli “abbracci spezzati”, concedendo ai figli il riparo del suo petto, come se questo potesse bastare a scongiurare la condanna al sacrificio della vita. La stretta della madre sembra attenuare la sensuale coloritura erotica che l’abbraccio assume nel dominio simbolico della danza di Bausch (si pensi all’estenuante ripetizione della sequenza di abbracci e abbandoni di Caffè Müller), eppure la misura del contatto, sebbene in un mutato contesto relazionale ed espressivo, rinvia alla medesima radice disperante. Aggrappato al respiro di storie ancestrali, il teatro di Dante ci ricorda, ancora con Rilke, che «il corpo impara un abbraccio che trascende i propri confini» (Rilke 1985, p. 33).
Riferimenti bibliografici
Euripide, Eracle, con interventi di E. Dante, C. Maringola, V. Sannino, S. Ganci, M. Lo Sicco, INDA, Siracusa 2018.
R.M. Rilke, Rodin, SE, Milano 1985.
Id., Appunti sulla melodia delle cose, in Id., Scritti sul teatro, a cura di U. Artioli e C. Grazioli, Costa & Nolan, Genova 1995.