Lasciare in fuori campo i volti e far sì che delle figure si avverta in primo luogo la presenza fisica mescolata ai luoghi, impastata con i suoni. Questo principio ispira in modo quasi sistematico i piani sequenza iniziali dei film di Comodin, tutti aperti da personaggi immersi in una natura più o meno intima, più o meno selvatica: il sentiero irregolare che conduce al fiume Tagliamento percorso dai due adolescenti ne L’estate di Giacomo, il bosco-rifugio in cui corrono i fuggitivi di I tempi felici verranno presto, le fronde del giardino privato dentro cui dimora Gigi la legge. In quest’ultimo caso il vigile di provincia Gigi ci appare di profilo, un’ombra che si staglia contro una siepe al di là della quale un vicino di casa, di cui non vediamo nemmeno la sagoma (e mai la vedremo nel resto del film), si lamenta del fatto che l’uomo lascia che le sue piante crescano alte e rigogliose esondando i confini della sua proprietà e rischiando di cadere in quella altrui.

Non c’è nulla di neanche lontanamente vicino al casuale in questa scena. Gigi recita, non nasconde i tentennamenti, dà la battuta alla voce acusmatica che prontamente gli risponde come se stessero recitando un provino. Non è la realtà che interessa Comodin in questa prima sequenza, ancor meno di quanto lo interessasse negli incipit dei film precedenti. Il primo quarto d’ora del suo film, fatto solo di due uomini che si parlano tra un fogliame fitto nella penombra, è di fatto una tesi, una dichiarazione di intenti che il regista qui rende definitivamente esplicita: il suo cinema vive nel fuori campo delle immagini. Ed è precisamente per questo che si sottrae a qualsiasi definizione di genere.

Documentario? Fiction? Come in molti altri cineasti contemporanei il confine è poroso, ma Comodin più degli altri sembra aver individuato senza dubbio alcuno che la forza di tale ambiguità si annida proprio là dove l’immagine del reale si apre al suo fuori, ad un puro immaginabile capace di dialogare in modo costante con quanto accade di fronte alla macchina da presa. Quel fuori che parla dai margini dell’inquadratura attraverso una voce, un suono, un’ombra, anche solo attraverso un’invisibilità che esercita una pressione centrifuga sul focus visivo, diventa nel suo cinema un possibile spazio di scrittura creativa.

Non è sufficiente aprire in modo passivo a quel fuori campo, bisogna – e Comodin lo fa molto bene – agire tempestivamente perché questo si traduca in uno stimolatore di storie, operando una trasfigurazione, sotto il totale controllo autoriale del regista, su un reale che più facilmente si presenta all’occhio di quest’ultimo nelle immagini che cattura.

Fuori campo rimane, subito dopo la prima sequenza, il fatto di cronaca che colpisce Gigi e continua ad assillarlo nei giorni avvenire: una ragazza si suicida buttandosi sulle rotaie del treno che passa alle porte di San Michele al Tagliamento. La volante di Gigi si ferma poco prima del passaggio a livello. Un ragazzo – il primo ad aver avvistato il corpo – indica il cadavere sulla destra dello schermo, fuori dal raggio del nostro sguardo. Lo spettatore osserva tutta la scena da dentro l’abitacolo dell’auto, come se fosse rimasto seduto sul sedile posteriore. Persino il giovane testimone, oggetto di investigazione nel resto del film da parte di Gigi, che gli attribuisce sin da subito qualcosa di sospetto, rimane così per noi un corpo lontano, offuscato alla vista.

È proprio grazie all’espediente della macchina, in cui è posizionata la cinepresa per gran parte del film, che Comodin può giocare costantemente con il campo della visuale della strada – il riquadro per eccellenza cinematografico del parabrezza fuori dal quale scorre il mondo esterno – e il fuori campo delle voci di chi il vigile incontra lungo il suo cammino.

Due esempi per tutti: il giovane Ulisse, che Gigi raccatta in mezzo alla campagna e riporta a casa e che conosciamo unicamente attraverso l’ascolto, salvo in una breve sequenza in cui i due si arrestano in mezzo a un campo e Gigi prova il motorino del ragazzo (ancora una volta, facendo ruggire il motore in fuori campo, lasciando alla nostra immaginazione le sue ipotetiche piroette con il ciclomotore); la ragazza che Gigi porta in un centro di salute mentale e con la quale lo udiamo (ma non vediamo) scherzare cercando di convincerla ad affidarsi al personale medico – proprio come era successo con un suo vicino di casa qualche anno prima, come racconta alla collega, lasciando in questo caso che il fuori campo lavori all’interno del suo lungo monologo, camera fissa sul suo viso, aprendo squarci visivi unicamente a partire dalle sue parole.

D’altronde anche a chi è seduto in macchina accanto a lui, a partire dalla vigilessa con la quale suole fare la ronda giornaliera nelle strade torride della provincia friulana, spetta la sorte di non apparire mai nella stessa inquadratura del personaggio, intrecciando domande e risposte le une nel fuori campo dell’altro. Sembra insomma che Gigi (o il suo sguardo, se a questo facciamo corrispondere la veduta oltre il cruscotto) occupi per tutta la durata del film lo spazio che Comodin ascrive al campo, e dunque, in qualche modo, al reale che ha scelto di rappresentare. Nel suo fuori campo accade ciò che, al contrario, il regista può sfidare il reale ad incarnare: forme, figure, parole libere dall’essere piegate a rappresentazione e di conseguenza passibili di diventare a tutti gli effetti narrazione, in qualche caso persino romanzata.

È il caso della trovata più brillante e che più osa nei domini della fiction del film. Dal principio alla fine Gigi comunica attraverso la radio che collega la sua volante alla centrale con Paola, una giovane collega da poco in servizio che non ha mai visto e che continua, per un motivo o per l’altro, a non incontrare di persona. La voce suadente in fuori campo della ragazza produce l’innesto nei momenti ordinari che si susseguono nelle giornate di Gigi di un ennesimo acusmetro, questa volta conscio erede del grande cinema hollywoodiano. Non è dato sapere fino a che punto Comodin abbia costruito questo fuori campo a tavolino. Con ogni probabilità quasi del tutto, divertendosi a dare corpo ad un vero e proprio personaggio che dal piano della fiction ha il diritto di lanciarsi in diverse incursioni in quello reale in cui si sta svolgendo la scena.

“Paola chiama Gigi”, fiction chiama realtà. Gigi risponde, e si abbandona ad alcuni dei momenti più simpatici e, paradossalmente, autentici della sua performance, servendosi di un’infatuazione sollecitata per concedere allo spettatore alcuni affondi preziosi sulla sua identità. Proprio lì, sulla soglia di quel “passo e chiudo” che continuamente rimette in circolazione la realtà nella finzione e la finzione nella realtà. Fino all’apoteosi: la sequenza in cui vediamo Gigi parlare con il suo fuori campo femminile tentando finalmente una seduzione a carte scoperte e invitando la collega a cenare con lui a “rose, farfalle e vento”, per capire poco dopo che, in quel caso (ma solo in quel caso?) il dialogo è avvenuto esclusivamente nel suo immaginario.

E difatti è proprio Paola, che alla fine del film guadagna un corpo e prende in carico nella sua deacusmatizzazione la sutura finale tra ciò che è vero e ciò che è falso, a permettere a Comodin il lusso dell’unica immagine in campo appartenente al dominio della messa in scena, quando la bella ragazza appare nel buio, tra le fronde del giardino di Gigi, mentre si slaccia la camicetta sul finire di quell’ipotetica cena che forse mai c’è stata o forse invece sì.

Se aveva ragione Bill Nichols ad associare la logica narrativa del documentario a quella del genere poliziesco – in entrambi i casi secondo lo studioso lo spettatore assiste ad un racconto che si muove attraverso una serie di argomentazioni logiche, deduzioni e disvelamenti fino a giungere a una «soluzione finale» alla ricerca operata sul mondo reale – Comodin sceglie di partire precisamente dal modello tradizionale del “giallo” per smascherarlo dall’interno. Gigi è lo sguardo attraverso cui il regista indaga (letteralmente) il reale. Ma forse, a dettare legge, è piuttosto quel fuori campo da cui il cineasta manomette sottilmente l’investigazione.

Gigi la legge. Regia: Alessandro Comodin; interpreti: Pierluigi Mecchia, Ester Vergolini, Annalisa Ferrari, Tomaso Cecotto, Massimo Piazza; produzione: OKTA FILM (Italia) con RAI CINEMA (Italia), Idéale Audience (Francia), Michigan Films (Belgio); distribuzione: Okta Film in collaborazione con Barz and Hippo e Start; origine: Italia, Francia, Belgio; durata: 102′; anno: 2022.

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