Rappresentare la terra di una popolazione martoriata da più di un anno di guerra come una località turistica di lusso, dove alcuni vecchi ricconi se la spassano tra spiagge, bar e belle ragazze? Osceno. Mostrare persone detenute da più di un anno, che sono state torturate e sono i sopravvissuti di un gruppo più ampio di vittime di terribili abusi, come se fossero riconoscenti verso i loro aguzzini, al punto di abbracciarli e baciarli? Ugualmente osceno. In un caso stiamo parlando del video in cui l’intelligenza artificiale immagina il futuro di Gaza, che lo staff di Trump ha rilanciato rendendolo virale. Nell’altro caso parliamo della drammaturgia messa in opera da Hamas nelle “cerimonie” pubbliche di rilascio degli ostaggi israeliani. Non insisto sul carattere speculare dei due spettacoli per invitare ad avere un occhio imparziale. È perché credo che non si capisca il significato di queste immagini se le si prende singolarmente. Lo spettatore che resta scioccato di fronte all’oscenità del singolo spettacolo, in un caso e nell’altro, non coglie il senso complessivo. Si limita a chiedersi perché simili immagini vengono prodotte e a chi possono piacere. Insomma, questo spettatore moralmente scosso, e ha motivo di esserlo, riporta queste immagini al paradigma di un testo interpretabile secondo la triplice direttrice dell’intentio operis, dell’intentio auctoris e dell’intentio lectoris (ovvero spectatoris), di cui parla Umberto Eco in Lector in fabula.

Lo spettatore indignato, nel momento in cui sovrappone la sua griglia interpretativa sulle immagini oscene che suscitano la sua protesta, perde un pezzo importante dell’esperienza visuale del nostro tempo. Le immagini che circolano nella rete, e che costituiscono la maggior parte delle immagini oggi fruite, diventando in qualche modo lo sfondo iconologico del nostro tempo, partecipano a un costante flusso di messaggi e informazioni. Non sono immagini-contemplazione, sono immagini-flusso. Estrarre una singola immagine dal flusso comporta naturalmente un certo atteggiamento contemplativo. Ma se dimentichiamo qual è l’origine di quella immagine, ne falsiamo il senso. È come se pretendessimo di vedere le opere d’arte conservate in un museo – quelle autentiche, non le riproduzioni fotografiche – scorrere su uno schermo in modalità presentazione. È senza dubbio possibile ripensare il significato di quelle opere, componendole in un atlante e magari facendole dialogare con immagini di tipo diverso: lo ha fatto in modo geniale Aby Warburg. Ma per questo sono necessarie almeno due cose: un ripensamento del significato delle immagini e il fatto di avere a disposizione una tecnologia come la fotografia, capace di rimediarle in un nuovo formato.

Allo stesso modo, quando estraiamo un’immagine dal flusso in cui l’abbiamo trovata, non è l’immagine a entrare nel nostro orizzonte culturale, fatto di immagini da contemplare, a meno che non abbiamo già predisposto un contesto capace, per così dire, di ri-auratizzare quella immagine. Siamo noi a entrare nel flusso. Le immagini hanno questa funzione: ci coinvolgono nel flusso. O meglio, poiché nel flusso ci siamo già, ci orientano, dando una direzione alla nostra partecipazione. Forse oggi la profezia pessimistica di Vilém Flusser, il quale vedeva nell’era delle telecomunicazioni una regressione allo stadio preistorico della conoscenza per immagini, si realizza in una maniera inaspettata: le immagini offrono un orientamento, laddove la scrittura ha raggiunto livelli di produzione ipertrofica, impossibili da elaborare per un’intelligenza umana. Forse un giorno scriveranno solo i chatbot.

Vorrei aggiungere che non è tutto rose e fiori, dal momento che il senso impresso al flusso dalle immagini può essere appunto quello di una guerra tra universi culturali incompatibili. Analizzando i video delle esecuzioni cruente di Daesh, Marie José Mondzain suggerisce che le immagini politiche del nostro tempo producono un effetto di incorporazione: lo spettatore si sente parte del rituale eseguito, vuoi come adepto vuoi come vittima sacrificale. Il rito istituisce un vincolo comunitario, perfino tra vittime e carnefici, proiettando entrambi in una dimensione tragica. La messa in scena del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas in un certo senso istituzionalizza e normalizza questa logica. Il video filo-trumpiano sul futuro di Gaza oppone a questa logica quella del comico e della commedia. È semplicemente comico, per non dire demenziale, immaginare Gaza come San Diego o come Sharm el Sheikh.

È veramente l’immaginario osceno di un costruttore newyorchese neoliberista, che crede nella felicità offerta da un mondo di plastica. Ed è l’eredità che lascia al suo degno sodale, un imprenditore della Silicon Valley geniale e pazzo, che è ovviamente l’uomo più ricco del mondo. Il video è un cinepanettone in miniatura, ma su scala geopolitica, per la regia di un chatbot che andrà nominato e personalizzato per l’occasione. È commedia nel senso più triviale del termine. Attenzione però, perché il senso dell’operazione non è quello di banalizzare la sofferenza, ma di chiedere allo spettatore di scegliere tra una vita oscenamente tragica e una oscenamente comica. Il video su Gaza non fa nulla per non apparire osceno, alla pari dei video da Gaza. Ma il video filo-trumpiano, strizzando l’occhio allo spettatore, suggerisce che, osceno per osceno, il comico è preferibile al tragico. E ha le sue buone ragioni per farlo, perché sa che lo spettatore è nel flusso e quindi, con la coda nell’occhio, nel frattempo guarda gli altri video.

Quella in corso è, come direbbe Walter Benjamin, una estetizzazione della politica, ma di portata globale e condotta come se fosse una guerriglia semiologica tra visioni del mondo antagoniste, impegnate nel rovesciare, parodiare o ridicolizzare il senso dei messaggi inviati dal nemico. Non è facile elaborare, come vorrebbe Benjamin, una politicizzazione dell’arte che contenda l’attenzione dello spettatore alle immagini di propaganda, perché nel contesto attuale un’operazione del genere può benissimo essere stigmatizzata come “intelligenza” con il nemico. Occorrerebbe piuttosto una politicizzazione della visione, cioè l’elaborazione di criteri che permettano di rendere visibile, e se necessario disattivare, il potenziale manipolatorio delle immagini. I video in questione propongono estetiche diverse e usano diversi formati dell’immagine; in un caso l’agente umano è il produttore delle immagini, nell’altro si limita a condividere immagini prodotte dall’intelligenza artificiale. Quali tra questi elementi si sedimentano in modo più profondo nel senso comune? E quali effetti hanno su di noi? Non verremo a capo dell’oscenità di immagini simili se non proveremo a rispondere a queste domande.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2014.
U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979.   
Id., L’era della comunicazione, La Nave di Teseo, Milano 2023.
A. Loewenstein, V. Flussér, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006.
M.J. Mondzain, L’immagine che uccide, EDB, Bologna 2017.

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