Quale trama lega due grandi registi, di generazioni e poetiche distinte, a Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani? In un incontro al cinema Troisi, da un lato c’è Francis Ford Coppola, considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema; dall’altro Alice Rohrwacher, regista diventata un nome centrale nel cinema italiano, soprattutto in una prospettiva  internazionale. E poi c’è Due soldi di speranza, che Coppola introduce: “Ho avuto il piacere di incontrare Alice. Ho visto il suo film, ho pensato che fosse bellissimo e che le sarebbe piaciuto anche questo film. Avevo ragione”. Anche la regista italiana racconta il suo legame profondo con il film: “Potrei doppiarlo perché lo so a memoria”.

Coppola racconta che è stato Milos Forman, autore di Qualcuno volò sul nido del Cuculo ed Hair, ad avergli fatto scoprire il film in una proiezione. E, in seguito, con un fare da organizzatore di un piccolo cineclub d’essai, chiede incuriosito se nel pubblico qualcuno avesse visto il film del regista ceco Fuoco ragazza mia! (1967), per subito dopo consigliarne assolutamente la visione. Aggiunge che è stato Forman stesso ad ammettere l’influenza che ebbe Due soldi di speranza nella realizzazione di questo suo film.

Dov’è il punto di convergenza che possa comporre e tener salda la costellazione Castellani-Coppola-Rohrwacher? Potrebbe essere quello della coralità e della sua rappresentazione. Il film di Castellani è una commedia, segue la struttura classica e si risolve in un happy end carico di speranza dove «nessuno uccide nessuno» (Aristotele 1998, p. 29). L’elemento della coralità è presente sin dall’inizio, e si manifesta, come sempre nella commedia, in quanto presenza ampiamente sociale, sia nella rigida forma familiare che vincola i protagonisti, Antonio economicamente, Carmela in forma patriarcale; sia nella forma generale di società, per quanto ridotta agli abitanti di un piccolo paese della Campania. La società e la famiglia parlano della vicenda di Antonio e Carmela, ne fanno da coro ma, solo nel finale, la prima farà da spalla ai due protagonisti per contribuire a risolvere il loro conflitto. Il film mostra esemplarmente la società come una forma di coralità commedica, capace di costituirsi nel finale come «condivisione fiduciosa e orizzontale tra tutti i (suoi) componenti» (De Gaetano 2024, p. 61).

La famiglia come referente privilegiato della rappresentazione tragica è al centro invece della nota trilogia di Coppola, Il Padrino (1972, 1974, 1990), in cui il nucleo familiare appare nella purezza originaria del significato greco di ghenos (“genere”, “parentela”). La famiglia Corleone è una presenza simbolica ingombrante per ognuno dei suoi appartenenti. Orienta ogni pensiero, è origine e conclusione mortale di conflitti continui, prima di Don Vito, poi di Michael, ma anche di ogni altro personaggio (Santino, Fredo, Connie, Tom). Levando ogni possibilità di un fuori, qualsiasi affacciarsi all’esterno viene punito come tradimento. La conclusione del conflitto è sempre a tinte fosche, cupe. L’esito non esce dal contesto della coralità familiare, ma è l’auto-annientamento tragico dello stesso nucleo.

Il cinema di Alice Rohrwacher, invece, include l’elemento corale non in senso comico né tragico, ma come elemento misterioso-magico che guida le forme di vita. A partire da una forma originaria di esistenza (mondo rurale), Rohrwacher ci mostra dei personaggi eterodossi, che vivono ai margini. L’elemento corale si inserisce dunque in questo orizzonte. Che cosa sono i tombaroli o la stazione abbandonata abitata soltanto da donne ne La Chimera (2023) oppure le bambine che gestiscono lo smielatore ne Le Meraviglie (2014) se non figure della possibilità di un’altra coralità, un’altra famiglia, un’altra società? La regista italiana sembra immaginare una società alternativa, più fluida, rispetto al coro tragico siciliano di Coppola. Drammaturgicamente Coppola e Rohrwacher sembrano irriducibilmente distanti tra loro.

Invece, è proprio nella rappresentazione della coralità che la poetica dei tre autori sembra esprimersi in maniera simile, attraverso l’elemento figurativo del volto. Come dice Derrida a proposito di Levinas, «il viso apre e eccede la totalità. Per questo, segna il limite di ogni potere, di ogni violenza, e l’origine dell’etica» (Derrida 2002, p. 132). Tutti i personaggi del cinema di Alice Rohrwacher – i protagonisti Gelsomina, Lazzaro e Arthur ma anche i personaggi secondari – sembrano esibire questo limite. E anche i personaggi di Coppola, non tanto i Michael Corleone, i Willard o i Kurtz, e neanche Harry Caul, ma i comprimari sembrano poter essere letti in questa logica di inafferrabilità liminare. La coralità è ciò che unisce o separa, commedia o tragedia, o finanche mistero, come ciò che resta nella figurazione e nei volti. È forse qui il senso di un incontro intorno ad un film che catalizza un comune imprevedibile amore. Un regista propone un film che ama, e un’altra, anche lei amante del film, accetta il ruolo di comprimaria e cerca di capire, attraverso domande indirette, perché quel film sia stato scelto.

Riferimenti bibliografici
Aristotele, Poetica, Laterza, Roma-Bari 1998.
R. De Gaetano, Le immagini della commedia, Marsilio, Venezia 2024.
J. Derrida, Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2002.

*Foto di Stefania Casellato.

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