Al tradizionale corteo del Primo Maggio quest’anno hanno partecipato per la prima volta uniti i ciclofattorini dei servizi a domicilio alle dipendenze delle piattaforme digitali come Deliveroo, Foodora, ecc. Vestivano una maschera bianca per denunicare la propria invisibilità; chiedono semplicemente di essere riconosciuti come lavoratori in modo da ottenere un regolare contratto, ferie e assistenza sanitaria.

La retorica neoliberale li presenta come i nuovi imprenditori di domani: efficienti, intraprendenti, autonomi e indipendenti. La cosiddetta realtà della Gig economy, l’economia dei lavoretti, del lavoro amichevole e senza impegno del nuovo capitalismo digitale è in realtà ben differente: sfruttamento intensivo ed estensivo, salari di fame, nessun diritto, precarietà, insubordinazione e un padrone che ha il volto di un algoritmo, che eterodirige, distribuisce e programma le consegne nel tempo e nello spazio prestabilito, ricompensa a prestazione, rendiconta sulla velocità di consegna e disegna un profilo del lavoratore basato sulla fedeltà, e sull’appartenenza.

La questione dei “cottimisti digitali” rappresenta un tema cruciale: sono questi lavoretti, quelli dei facchini, dei softwaristi, del lavoro a chiamata nei trasporti, nelle pulizie e nelle cure familiari, che costruiscono il nuovo capitalismo delle piattaforme, il settore della distribuzione che sta creando un esercito di nuovi poveri e inaugurando inedite forme di servilismo. L’enorme crescita di queste forme di lavoro fa parte di una trasformazione più grande che vede nel cosiddetto lavoro atipico e precario, vale a dire non salariato, né dipendente – ossia indipendente ma assolutamente subordinato, come direbbe Bologna, – il nuovo modello attuale del lavoro.

Di questi invisibili parla il nuovo libro di Roberto Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, pubblicato recentemente per DeriveApprodi, a cui bisogna riconoscere il grande merito di tenere desta l’attenzione su di un tema tanto cruciale quanto spesso rimosso: il lavoro nell’epoca della sua presunta fine e della sua infinita forza.

In maniera schizofrenica, infatti, nota Ciccarelli, da un lato subiamo un’infinita produzione di discorsi intorno al lavoro, dall’altro, invece, è in corso una sistematica rimozione della nostra identità di lavoratori. A ciò contribuirebbe l’attuale rivoluzione digitale che porta a compimento la profezia della cosiddetta automazione totale, dell’auto-che-si-guida-da-sola in base a un algoritmo. Questo mito è, invece, il frutto di una precisa ideologia che distopicamente predica l’a-venire di una totale sostituzione – con conseguente scomparsa – della forza lavoro ad opera delle macchine. Al contrario, fa notare Ciccarelli:

Il lavoro non è finito. È solo finito un modello di lavoro salariato retribuito mentre il lavoro precario si moltiplica anche attraverso l’automazione, il lavoro a termine, l’auto-impiego, le app, al di là dello schema predeterminato del contratto di lavoro. Il cottimo tecnologico, la mansione iper-contingentata e anonima, la prestazione psico-fisica computerizzata saranno applicate alla forza lavoro nel corso della prossima generazione (p. 49).

 

Siamo noi stessi complici e vittime di un grande processo di mistificazione; ne è un esempio eclatante Amazon Mechanical Turk, il servizio lanciato da Amazon nel 2005 che aggrega una folla di lavoratori digitali – una “nuvola online”– che esegue una serie di microservizi digitali temporanei e aleatori. Ciccarelli li chiama anche clickworkers, coloro che allenano gli algoritmi a diventare intelligenti attraverso la classificazione dei dati, il riconoscimento di immagini e suoni, la capacità di esprimere opinioni, formulare giudizi, manifestare preferenze, interpretare gestualità. In una parola questi (non) lavoratori mettono a lavoro la propria umanità per insegnare ai robot a essere più umani, intelligenti e precisi nel riconoscere e collocare beni e servizi secondo il profilo del consumatore.

Il nuovo turco meccanico, proprio come quello creato nel 1769 per Maria Teresa d’Austria, ha lo scopo di lasciare credere che sia superfluo e inutile l’essere umano e di contro creativo e intelligente l’automa: «sembra che il lavoro si produca da solo, le merci appaiano misteriosamente nelle nostre case, il denaro sia l’incarnazione della volontà matematica di un algoritmo» (p. 9). Proprio perché è ingenuo pensare che possa esistere un’automazione indipendente dalla forza lavoro, bisognerebbe, a ragione, parlare di ibridazione tra forza lavoro e macchine come risultato della cooperazione sempre più intensa e raffinata tra lavoratori organizzati attraverso gli algoritmi «al punto che si può immaginare un divenire macchina della forza lavoro e un divenire forza lavoro della macchina» (p. 33). I lavoratori non sono dunque appendici organiche di algoritmi, ma la condicio sine qua non che ne rende possibile l’operatività.

La posizione di Ciccarelli non è sicuramente luddista: si tratta, semmai, di discutere sull’uso e sulla proprietà delle piattaforme e degli algoritmi dal momento che la ricchezza del capitale proviene esattamente dalla combinazione tra queste e forza lavoro. Partendo dalla decostruzione di questa ideologia dominante, analizzata dal punto di vista digitale, ri-emergerà, proprio dalla prospettiva della sua sparizione, la figura invisibile e potente della forza lavoro. La parte centrale del testo si attarda, allora, in un’attenta ricostruzione della categoria del lavoro, esclusivamente a partire dalla «condizione che lo rende possibile, la forza lavoro» (p. 9).

Concetto sempre antico e sempre nuovo, nostro orizzonte imprenscindibile, si definisce forza lavoro l’insieme di attività e disposizioni – intellettuali, pratiche, linguistiche, corporee, psichiche e cooperative – che rendono viva la vita. La forza lavoro «è la facoltà delle facoltà» (p. 84); sia forza sia potenza; corporeità vivente nella specifica accezione marxiana e allo stesso tempo possibilità universale e comune; sia capacità di lavoro che attualizza una potenza, sia potenza intrinseca e inattuata in un soggetto determinato. Potenza sempre all’opera grazie alla quale noi stessi siamo in vita. In questa definizione all’incrocio tra forza lavoro di Marx e conatus di Spinoza, tra materialismo filosofico e etica spinozista, Ciccarelli ricerca la chiave di una nuova prospettiva sintetizzabile nella domanda: «cosa può una forza lavoro?» (p. 195).

Rintracciare l’intuizione di questa potenza materialistica che noi stessi siamo, significa aprirsi, oltre l’idea di un destino inevitabile e immobile, a nuove forme di possibilità ed evocare nuovi piani di lotta. In questo senso questo discorso si rivela profondamente etico, in quanto sperimenta nuove pratiche di «condotte alternative che derivano da un’altra pratica di sé ricavata nella soggettivazione dominante. Tale pratica risponde a un’etica e trasforma le forme di vita attraverso un uso differente della vita stessa» (p. 194). Contro qualsiasi forma di utopia digitale, catastrofismo o futurologia che opta per un orizzonte insuperabile, ci troviamo, secondo Ciccarelli, su di una soglia aperta da scoprire attraverso l’iniziativa politica.

Se ne Il Quinto Stato, pubblicato da Ciccarelli insieme a Giuseppe Allegri nel 2013, erano le pratiche di associazionismo o le reti di solidarietà mutualistica, sul modello coworking, community organizing, crowdfunding, il modo per trasformare in un movimento l’assenza di identità politica e sindacale, la condizione di insubordinazione lavorativa e di apolidia sociale, in questo nuovo saggio il “gionalismo filosofico” di Ciccarelli si dirige non tanto e non solo a rivendicazioni di tipo salariale. Questa forza lavoro trascurata e ricattabile, privata di tutti i diritti tra cui quello alla parola, ha bisogno di un’originaria rivendicazione all’esistenza: «il disciplinamento, la trasfigurazione e la rimozione della forza lavoro – la sua invisibilizzazione – sono l’esito di un’egemonia culturale così potente da aver spinto gli stessi lavoratori a credere di essere invisibili» (p. 10).

Il solo fatto di esistere dovrebbe diventare sinonimo di remunerazione: questa la tesi di Ciccarelli basata sull’idea che la nostra vita produce in ogni istante valore per il Capitale, nella misura in cui siamo costitutivamente e in ogni istante una forza lavoro, anche quando non lavoriamo nel senso tradizionale di avere un’occupazione, o un contratto a tempo indeterminato. Un reddito di base, universale e incondizionato, sganciato dalla prestazione lavorativa, rappresenta una forma per ricompensare l’estrema produttività della forza lavoro contemporanea, in quanto potenza vitale sempre al lavoro e messa direttamente o indirettamente a valore. Il reddito universale sarebbe, allora, un riconoscimento di questo valore che, indipentemente dalle condizioni di rapporto di lavoro tradizionale, viene estratto e valorizzato dalle piattaforme digitali 24 ore su 24. Sono le piattaforme a mettere al lavoro la vita al di fuori del rapporto di lavoro facendoci lavorare anche laddove ciò non comporti uno sforzo fisico e mentale: «l’entusiasmo compulsivo generato dall’uso della piattaforma porta gli utenti a diventare involontari sostenitori del nuovo imperativo: il lavoro non pagato è un’attività naturale, inevitabile e persino appagante» (p. 59).

Lungi dall’essere un’elemosina contro la povertà, questa soluzione risolverebbe il problema oneroso di misurare il tempo e il valore di questa produzione immateriale eppure reale che ci appartiene a prescindere dalla nostra professione, impiego o condizione. Lampante risulta, in questo senso, il caso di Facebook, citato nel libro, il cui profitto si basa sull’appropriazione inconsapevole del valore-informazione prodotto dal nostro intrattenimento digitale. Qualsiasi opinione, like, e profilo personale costituisce non soltanto una mole di dati rielaborata e rivenduta ad uso dell’offerta pubblicitaria, ma soprattutto una quantità di tempo di (forza) lavoro non-pagato. L’eterogeneità e la frammentareità delle forme di lavoro implicano un’eterogeneità delle istanze contrattuali risolvibile solo attraverso il raggiungimento di una proposta politica che vede nel riconoscimento di una condizione comune, quella della forza lavoro, la nascita di una coscienza comune.

La coscienza di essere, più che di avere, una forza lavoro.

Riferimenti bibliografici
G. Allegri, R. Ciccarelli, Il quinto Stato. Perchè il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte alle Grazie, Milano 2013.
D. Banfi, S. Bologna, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011.
S. Bologna, Il lavoro autonomo di seconda generazione: scenari del post fordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997.
R. Ciccarelli, Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma 2018.C. Mogno, Ho lavorato come turca meccanica per Amazon, in “Manifesto”, 28 aprile 2018.
M. Passagliotti, Noi riders e cottimisti viviamo attaccati al telefono, in “Manifesto”, 28 aprile 2018.

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