Nel 2004, in occasione di una conferenza per il bicentenario della morte di Kant, Emilio Garroni sottolineava l’imprescindibilità e la diffusività del suo pensiero. Kant è stato non soltanto uno dei filosofi più importanti della nostra storia culturale, ma «il fondatore e il rivelatore della civiltà occidentale». Garroni aggiungeva poi che si tratta della civiltà «in cui ancora viviamo» (Garroni, 2008, p. 11), innegabilmente, al di là delle divergenze e degli orientamenti locali, da leggere come involuzioni, movimenti regressivi.
Negli ultimi venti anni sono avvenute molte cose che ci hanno costretto a rivedere alcuni assunti relativi al posto dell’umano nel mondo. La crisi ambientale e le preoccupazioni per il futuro della specie hanno scalfito fortemente la fiducia nella ragione, imponendoci di ripensare il nostro rapporto con il pianeta e con gli altri enti che insieme a noi lo abitano. Dal punto di vista filosofico, il pensiero contemporaneo più radicale si è rivolto a una ontologia orizzontale, fatta di concatenamenti, parentele e reti che vogliono superare la scissione tra umano e non umano (Haraway, 2019; Tsing, 2021). Ciò che viene messa in discussione è in primo luogo la posizione centrale che per secoli abbiamo disinvoltamente occupato, come anche la separazione tra gli oggetti del mondo e il soggetto che li conosce. Un soggetto cittadino di due mondi che, pur facendo parte della natura, al tempo stesso si ergeva al di sopra di essa nel giudicarla.
Di tutto questo Kant è il nome, un nome proprio che al di là della complessità della sua filosofia analizzata dagli specialisti ha assunto innanzitutto il significato di una istanza antropocentrica, dualista (secondo in questo, forse, solo a Cartesio). Le varie formule riferite al suo pensiero – memorie scolastiche rimaste spesso impresse in modo indelebile, anche quando non comprese fino in fondo – testimoniano questa accezione del «significante Kant»: «la rivoluzione copernicana», «il tribunale della ragione», «il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me». La centralità del soggetto e delle sue facoltà, l’autonomia della ragione, la certezza del mondo sensibile e il contrappunto della coscienza rinviano a una costruzione filosofica tenacemente moderna. Un edificio teorico che, se si assume come punto di vista quello del rapporto tra soggetto e oggetto, rimane insuperato. E tuttavia, ciò che oggi viene messo in questione è proprio il dualismo implicito nella costruzione di questo rapporto. Che fare di Kant oggi, allora? È necessario, o possibile, o augurabile, farne a meno?
Tra le recenti e più interessanti risposte a queste domande c’è per esempio la replica di Catherine Malabou alle obiezioni del realismo speculativo, che per restituire al mondo il suo carattere di antecedenza, di autonomia e contingenza rispetto al pensiero e al soggetto vorrebbe «abbandonare il trascendentale» (Meillassoux, 2012). Malabou assegna invece al trascendentale kantiano, alle nostre possibilità di conoscenza, un carattere variabile, seguendo gli studi attuali sulla plasticità del cervello. Il trascendentale stesso si sviluppa, si trasforma, diviene, e questo permette di mantenere il tratto contingente della nostra realtà, del mondo come della mente (Malabou, 2020).
Prendendo le mosse da un altro luogo kantiano, la Critica della facoltà di giudizio, propongo una lettura che possa mostrare una concezione dei rapporti tra il soggetto e il mondo più vicina alla sensibilità contemporanea, a partire da Kant stesso, in particolare dalle sue pagine sul sublime. Proprio concentrandosi sull’irrompere del sublime nella terza Critica un autore che negli anni Sessanta si riferiva a Kant come a un nemico filosofico, ovvero Gilles Deleuze, poco tempo dopo lo avrebbe definito «sensibile alla catastrofe» (Deleuze, 2004, p. 104), capace nella vecchiaia di un’opera «sfrenata» (Deleuze, Guattari, 2002, p. VIII) come la terza Critica. Kant, dunque, da nemico diviene un alleato nella battaglia filosofica che vuole cogliere i limiti dell’esperienza più che l’esperienza ordinaria.
Se infatti, da una parte, l’inserzione della Analitica del sublime all’interno della terza Critica ha ragioni storico-filosofiche indiscutibili (data la diffusione del binomio bello-sublime nel dibattito filosofico di quegli anni), dall’altra, alcune evidenze testuali segnalano la difficoltà di Kant nella stesura di quelle pagine (D’Angelo, 2019, pp. 137-138). Jean-François Lyotard, un altro autore allo stesso tempo fedele e infedele al dettato kantiano, mette in evidenza alcuni indizi di questa problematicità, affermando addirittura che nelle veloci menzioni alla Analitica del sublime nel corso dell’opera Kant «cerchi di farla dimenticare», in un tentativo inconscio di nascondere ciò che potrebbe far crollare l’intero edificio della Critica (Lyotard, 2023, p. 94). C’è da chiedersi allora quale sia il contenuto scottante di quelle pagine.
Kant approda al sublime poiché la categoria di bello, come animazione e libero gioco di immaginazione e intelletto, non basta a descrivere una certa esperienza della natura, che non è teoretica, conoscitiva, né pratica, morale, ma nemmeno estetica nello stesso senso del giudizio di gusto sul bello. L’esperienza del sublime non è infatti una gioia, ma un piacere doloroso che emerge nell’occasione di un incontro con la grandezza assoluta o la forza irrappresentabile della natura, del fuori. Questo paradossale piacere negativo emerge nell’impedimento dell’ordinario lavoro dell’immaginazione, che non offre più dati all’intelletto (dato che il sublime è «privo di forma»), ma è posta di fronte a qualcosa che può sembrare «contrario a scopi per la nostra facoltà di giudizio, inadeguato alla nostra facoltà di esibizione e quasi violento» (Kant, 1999, p. 81). Si produce insomma uno stravolgimento del normale funzionamento delle facoltà, tanto che il soggetto trascendentale qui è al centro di una esperienza che – ammette Kant nel paragrafo 23, il paragrafo che introduce il passaggio dal bello al sublime – è apparentemente contro-finale.
Questo blocco delle forze vitali che caratterizza l’esperienza del sublime rispetto al bello conduce però secondo Kant, come si sa, a un piacere superiore, a una diversa finalità, quella razionale: per il solo fatto di poter pensare tale grandezza e potenza, anche senza potersele rappresentare, il sentimento del sublime attesta che esiste una facoltà dell’animo umano superiore a ogni misura dei sensi, la ragione. La crepa che si è aperta per un attimo sul baratro della contro-finalità – un baratro che minerebbe tutta la costruzione kantiana del giudizio riflettente di cui la finalità è il principio a priori – sembra quindi ricomposta. L’umano è secondo Kant colui che nel momento di maggior pericolo è comunque in grado di pensare persino ciò che non può darsi in immagini. Eppure, le parole usate nel paragrafo introduttivo al sublime sono state scritte, lo schematismo ha subito una ferita, Kant ha visto una interruzione nel rapporto armonico dell’essere umano con il mondo, e nella possibilità per il soggetto di padroneggiarlo.
In altre parole, è vero che il limite della immaginazione sperimentato di fronte al sublime è il primo passo per un piacere superiore, risvegliato da questa inadeguatezza, ma la scoperta di una iniziale contro-finalità del sublime inquieta le acque del sistema, direbbe Lyotard, e viene descritta infatti come uno strappo che va ricucito. L’impatto sconvolgente di fenomeni naturali minacciosi o talmente enormi da non poter essere ricompresi con lo sguardo non è più un oggetto per l’intelletto, ma un’esperienza che lo eccede. Una esperienza che, se non cade fuori dalla razionalità, si caratterizza comunque, esco dalla terminologia kantiana per utilizzare un termine diffuso nella filosofia contemporanea, come una esperienza di soglia.
Proprio l’autore dello schematismo e dell’analisi dei limiti delle facoltà aveva già visto le potenzialità distruttive e nello stesso tempo creative di un particolare rapporto con la natura. La ragione, quel pensiero che non coincide con la categorizzazione intellettuale, interviene soltanto dopo una esperienza del mondo in cui il soggetto viene spossessato del suo funzionamento normale. Questa rottura della percezione ordinaria è quella che nel Novecento verrà riconosciuta da Deleuze come necessaria per l’inizio di ogni pensiero, e da Lyotard come animazione, addirittura come emersione del soggetto stesso che può avvenire solo in seguito a un impatto con il sensibile.
Nella trattazione del sublime matematico c’è un passo che sembra alludere alle sue potenzialità distruttive quando non venga ricondotto all’attività compensatoria della ragione. Si tratta di quel breve passaggio dove Kant cita il mostruoso, naturalmente per accentuarne le differenze dal sublime. Sono poche righe, ma molto eloquenti nel contesto della nostra attualità filosofica, in cui si è parlato di «tempi mostruosi» (Haraway, 2019, p. 71), in cui il mostro viene ripreso come figura dell’ibridazione e come presa di distanza dalla pretesa di una originaria purezza. Nel pensiero non antropocentrico contemporaneo, la natura è infatti un «cosmo di mostri» e l’incontro con il mostro, con l’altro assoluto, si caratterizza come intreccio, parentela (Braidotti, 2005).
Se nel sublime matematico, nella valutazione estetica di una grandezza, la facoltà immaginativa tocca molto presto i suoi limiti, e il “massimo” che viene raggiunto è ciò che produce in noi una emozione non derivata da un pericolo reale, ma dalla voce della ragione, il piacere e il rispetto provocati dalle idee razionali non vengono risvegliati affatto, invece, nell’incontro con il mostruoso. Kant lo definisce un oggetto che «in forza della sua grandezza annulla lo scopo che costituisce il suo concetto» (Kant, 1999, p. 89). Si presenta qui un superamento dei limiti della immaginazione oltre il quale non è più possibile il conforto della concordanza con le idee della ragione come nel caso del sublime, non c’è quindi né identificazione né piacere, per quanto negativo. E tuttavia, qualcosa in questa necessità di avvicinare e opporre i due termini fa sì che possano collocare nella stessa area, circondati dalla stessa atmosfera. Come se, nella violenza e apparente contro-finalità del sublime kantiano – operando una esplicita manipolazione del pensiero di Kant, nemico e alleato – si possa intravedere sempre un iniziale momento mostruoso, che ci porta in quella soglia tra umano e non umano, dove non siamo noi al centro, e dove anzi parlare di un centro non ha più senso.
Riferimenti bibliografici
R. Braidotti, Madri, mostri e macchine, Manifestolibri, Roma 2005.
P. D’Angelo, Kant e il sublime, in M. Failla, N. Sanchez Madrid, a cura di, Le radici del senso, Alamanda, Madrid 2019.
G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, Mimesis, Milano 2004.
Id., F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
E. Garroni, Attualità di Kant, in “Studi kantiani”, 2008, XXI.
D. Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, Roma 2019.
Id., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero edizioni, Roma 2019.
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999.
J.-F. Lyotard, Anima minima, Eutimia, Napoli 2023.
C. Malabou, Divenire forma. Epigenesi e razionalità, Meltemi, Milano 2020.
Q. Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, Mimesis, Milano 2012.
A. L. Tsing, Il fungo alla fine del mondo, Keller, Rovereto 2021.