Vi è mai capitato di aprire una piattaforma di streaming e trascorrere più tempo a chiedervi cosa guardare piuttosto che a guardare effettivamente qualcosa? A giudicare dal web deve trattarsi di una sorte piuttosto comune, dato che su Reddit le sono stati aperti dei forum dedicati, o che Netflix sia arrivata a introdurre la funzione “Riproduci qualcosa” per delegare all’algoritmo del sito la scelta di cosa vedere. Il tutto suona un po’ come una riedizione digitale dell’asino di Buridano: un animale talmente indeciso se dirigersi verso la balla di fieno (film) o verso il secchio d’acqua (serie tv) che alla fine muore sia di fame che di sete.

La posizione del mammifero più famoso della filosofia sembra oggi rappresentare lo spaesante grado zero della nostra libertà di utenti di rete. Finché è un calcolo a indirizzarci verso ciò che vogliamo (o crediamo di volere), le cose funzionano piuttosto bene, ma non appena siamo chiamati a compiere una decisione reale, ecco che fanno capolino il dubbio e l’oscillazione infinita, come se il più alto e blando grado di libertà a cui abbiamo accesso (scegliere cosa guardare in streaming) dovesse per forza di cose arenarsi nell’eterna indecisione. 

Nel mio caso, un buon escamotage per venire fuori dal binomio acqua-fieno è precipitarmi sulla categoria “disponibili ancora per poco”. È senza dubbio la sezione più disordinata che ci sia, quella dove si trovano accozzaglie di contenuti che non hanno nulla da dirsi, accomunati unicamente dal fatto che un’inesorabile sentenza di indisponibilità pende su di loro. Capiamoci, si tratta di un puro escamotage per ingannare me stesso, di quel che la psicoanalisi chiama rinnegamento feticistico: “So benissimo che quel che sparisce da una piattaforma riappare in brevissimo tempo su un’altra, eppure…”. Ho notato che il criterio della (falsa) nostalgia mi aiuta a lenire l’indecisione: non posso farci nulla, il pensiero che Vacanze su Marte potrebbe presto scivolare nell’oblio mi rende gli “esticazzi” di Christian De Sica molto più ammalianti di un qualsiasi “non può piovere per sempre”. 

È una situazione duplice. Da un lato, l’eccesso di contenuti disponibili ci rende indecisi sul cosa guardare. Dall’altro, l’impressione della loro permanenza (“disponibili ancora per poco” esclusi, mi raccomando) ci rende indecisi sul quando guardare una determinata cosa. L’esito del bilancio è scritto in anticipo: l’asino di Buridano muore sotto i duri colpi dell’inedia e della disidratazione, e voi, altrettanto inesorabilmente, continuate a guardare Modern Family in loop per altri tre mesi

Baggianate a parte, Grafton Tanner su questo argomento ci ha scritto un libro, e pure serio, che alza di molto la posta del discorso. Si chiama Foreverismo. Fenomenologia di ciò che non finisce (effequ), e non a caso parte proprio da un’analisi sociopolitica della nostalgia, ricordandoci di come il nostro giudizio nei suoi confronti sia radicalmente mutato nel corso del tempo. Fino al XX secolo, la nostalgia era criminalizzata. Secondo una certa psichiatria, era una condizione che affliggeva le persone povere e incolte. Chi era costretto ad abbandonare la propria terra natìa per andare a cercarsi un lavoro altrove e, posseduto dal rimpianto, finiva per perdere la testa e compiere qualche efferatezza. Il nostalgico era un soggetto pericoloso, che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro, e le cui sorti galleggiavano in una zona grigia a metà tra la medicina correttiva e la giurisprudenza penale. 

Oggi, osserva Tanner, la situazione si è rovesciata. La nostalgia è stata decriminalizzata, ma anche data in pasto alle peggiori strategie di marketing. Da tara mentale è diventata una merce di consumo, un’esca redditizia per accalappiare la nostra attenzione di consumatori digitali. Il fatto che Tanner apra il suo libro proprio con questa ricostruzione non deve sorprenderci. Il foreverismo, scrive, è precisamente «il discorso in cui si mantiene presente il passato», un discorso che mira a suscitare ed estinguere la nostalgia «traendone al contempo profitto» (Tanner, 2024, pp. 35, 41). Il suo scopo è persemprificare, e cioè eliminare la nostalgia fornendo a ciascuno di noi un accesso pressoché illimitato a contenuti che ritenevamo oramai perduti o prossimi a scomparire. E non si tratta solamente della quantità dei contenuti.

Per renderci conto di quanto il foreverismo sia diffuso, pensiamo all’interminabile espansione di certi universi cinematografici e videoludici, all’archiviazione sul Cloud, alle tecnologie per la clonazione della voce, ai dispositivi tecnologici in costante aggiornamento o alla tracciabilità di qualsiasi nostro movimento. Ciò che si deteriora deve essere rivitalizzato a tutti i costi, ciò che rischia di suscitare il senso della sua mancanza va preservato e conservato a discapito del nuovo. Il vecchio imperativo edonista dell’“ora o mai più” sta cedendo il passo all’apparentemente innocuo “ora e per sempre”. Attenzione però, perché persemprificare non è affatto sinonimo di restaurare. Quando restauriamo qualcosa, lo facciamo per rimetterla a nuovo. Eliminiamo i segni del tempo per farla apparire ancora utilizzabile, attuale. Ma nel momento stesso in cui la cosa è restaurata, essa ricomincia ad invecchiare. Nel caso della persemprificazione, non ci limitiamo a riattualizzare, a far coincidere il prima con l’adesso. Piuttosto, eliminiamo la distinzione stessa tra il passato e il presente. Annulliamo il tempo affinché la cosa si tramuti in una sorta di (inquietante) oggetto eterno. 

La Disney si è dimostrata più volte maestra in questo genere di pratiche. Come nota Tanner, ci sono due precisi eventi che l’hanno incoronata regina della persemprificazione. Da un lato, la chiusura del Vault (un deposito-cassaforte per conservare e ripubblicare i propri titoli in home video a cicli di tempo limitati) e il lancio della piattaforma Disney+, che ha reso i prodotti dell’azienda permanentemente accessibili a tutti gli abbonati. Dall’altro, la decisione di espandere i propri franchise cinematografici di punta tramutandoli in universi illimitati, che sfornano un nuovo film ogni anno. La strategia, si dirà, è spremere finché si può una proprietà intellettuale di successo, riproponendone un numero abnorme di sequel, remake, prequel, spinoff eccetera.

Il meccanismo, invece, è più sottile e astuto di quanto sembri, e Tanner ce lo spiega attraverso la saga di Guerre stellari: «Definendo Star Wars come qualcosa di cui si deve sentire nostalgia, Disney implicitamente afferma che nulla sarà mai superiore a Star Wars. È un circolo vizioso: i nuovi film di Star Wars impediscono al franchise di scomparire nel passato, ma si implica, allo stesso tempo, che quegli stessi nuovi film non saranno mai all’altezza di Star Wars» (ivi, p. 53).
È il principio che Kathleen Kennedy, presidente di Lucasfilm, ha battezzato con il nome di storytelling persistente. Le saghe non si sviluppano più una trilogia alla volta. Piuttosto si compongono di prodotti singoli che si aggiungono ai precedenti in un processo additivo infinito. Formalmente rimangono dei film ma, nei fatti, si tratta di contenuti, gli stessi che consumiamo con disattenzione dallo smartphone o dal tablet ogni giorno.

L’industria dei videogame verte in una situazione non dissimile. Come molti critici del settore hanno sottolineato, ormai è prassi che l’industria videoludica metta in commercio i propri titoli nelle cosiddette versioni beta: versioni non definitive, piene di bug ed errori di bilanciamento, facendo leva sul fatto che i giochi verranno aggiornati in corsa, anche a distanza di mesi dalla pubblicazione. E non possiamo forse dire lo stesso per la pressione a restare sempre connessi che ci impongono i social media? Non siamo diventati forse, anche noi, gli attori del nostro personale storytelling persistente? Per tenere le nostre identità virtuali a galla, occorre aggiornare i propri profili social a cadenza regolare, non importa con cosa, l’importante è farlo e basta. I momenti morti sono finiti, qualsiasi app o sito che apriamo trabocca di informazioni, riempie velocemente la nostra soglia attentiva quel tanto che basta prima di travasarla nel contenuto successivo. Da qui la domanda delle domande: l’assenza di limite e la cancellazione del sentimento di perdita sono davvero un pregio? 

Secondo Tanner, il foreverismo non arricchisce il presente. Al contrario, lo ostruisce. La possibilità di avere tutto a portata di mano si rovescia nel «senso di stagnazione», in un «blocco» (ivi, p. 81). Se nulla giunge mai a compimento, se la nostalgia scompare, a farsi largo è il sentimento di irresolutezza. Occorre rimanere vigili, connessi, aggiornarsi, pena la sensazione di non riuscire a concludere nulla. Le persone, proprio come i contenuti, rimangono immobili. Il cambiamento cede il passo alla resistenza, e laddove la quantità dilaga senza sosta, la qualità svanisce: si può parlare con tutti e in ogni momento, ma senza mai proferire alcunché di significativo.

Nel frattempo, tanto per la cronaca, l’Oxford English Dictionary ha decretato che l’espressione dell’anno 2024 è “brain rot” (alla lettera “cervello marcio” o “marciume del cervello”), una formula che denuncia l’inaridimento intellettuale provocato dalle abbuffate di contenuti scadenti disponibili sul web. Certo, Andrew Przybylski, che a Oxford insegna Psicologia, è subito intervenuto rassicurandoci che, in realtà, i nostri cervelli non stanno effettivamente marcendo. Che non c’è motivo per credere che un simile abuso possa modificare in peggio il nostro sistema nervoso. Il successo della formula, secondo lui, sarebbe piuttosto la spia di un certo disagio sociale. Un disagio che, significativamente, è stato denunciato proprio dalle generazioni più giovani, le quali hanno forse capito prima di noi che “l’adesso e per sempre” non genera libertà, ma al massimo una schiera di asinelli digitali, indecisi e immobili.

Grafton Tanner, Foreverismo. Fenomenologia di ciò che non finisce, trad. e cura it. di R. Clamar, D. Sisto, effequ, Firenze 2024.

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