Fiore mio si apre facendo riferimento al grande problema del cambiamento climatico, affrontato a partire dallo scioglimento dei ghiacciai: Cognetti racconta di come, nell’estate del 2022, si sia esaurita la sorgente che porta l’acqua alla sua abitazione. Questo avvenimento lo colpisce tanto da citarlo a più riprese nel lungometraggio e da costituire l’origine delle riprese, nate dal desiderio di immortalare la bellezza del paesaggio montano durante il pericoloso arretramento dei ghiacciai che negli ultimi anni ha assunto dei ritmi sempre più preoccupanti. La problematica ambientale non viene dunque trattata in senso teorico e astratto ma scaturisce dal vissuto personale, dall’esperienza viva e concreta dell’autore e si trasforma pian piano in un’elegia dolente dedicata alla natura morente o, forse e come dice lo stesso Cognetti, in trasformazione.
Nel seguito del film, le immagini della natura alpina si accompagnano a considerazioni relative al cambiamento climatico: si tratta di ragionamenti scaturiti dall’esperienza diretta e legati indissolubilmente all’hic et nunc, all’essere in quel preciso luogo e in quel determinato istante. Al centro di Fiore mio sta dunque l’individuo e la sua relazione con ciò che lo circonda fondata sui sensi e, in particolare, su tatto, vista e udito. Un rapporto determinato dall’esperienza di ciò che lo circonda, sia esso l’ambiente in cui camminare, l’acqua da gustare mentre sgorga vergine dalle rocce, o le persone che incontra e con cui colloquia, mangia e si avventura nel bellissimo paesaggio che li attornia. L’autore offre allo spettatore esattamente ciò che lui stesso compie: un’esperienza di profonda condivisione, quasi panica, con la realtà, indifferentemente dal fatto che questa sia composta da paesaggi, suoni, esperienze o persone. Anche queste ultime sono intese come parte dell’ambiente: i personaggi vengono infatti raccontati principalmente tramite i loro corpi e gesti, dove quest’ultimo concetto definisce «sia un movimento corporeo legato all’espressione di un affetto, un’emozione, un sentire, sia un atto operativo e performativo, che costituisce una modalità di manipolazione della materia» (Grespi 2019, p. 10).
Gli individui filmati sono quindi colti nella loro materialità e nel loro fare quotidiano, inteso dal regista come ingresso audio-visuale che conduce alla loro intimità profonda. La centralità della persona è tanto importante da strutturare il film: questo è diviso in capitoli, ognuno dei quali contiene l’incontro con un personaggio diverso. Ciascuno si racconta e, successivamente, vive insieme a Cognetti delle esperienze, come tagliare la legna, celebrare un rito tibetano o, semplicemente, camminare per i sentieri alpini. La divisione fra i vari capitoli è segnalata da alcune brevi scene separative, in cui la regia abbandona la narrazione degli incontri per realizzare piccole sequenze composte dal montaggio di immagini diverse, accomunate dal contenuto (la natura in cui sono immersi i personaggi) e talvolta accostate ricorrendo ai loro legami formali (ad esempio, vediamo dei panni stesi ad asciugare su un filo all’aperto e, subito dopo, ci viene mostrato un pezzo della bandiera di preghiera tibetana, composta da riquadri di tessuto colorati attaccati a una corda, la cui forma richiama gli indumenti stesi). Inoltre, questi intermezzi separativi mostrano una sorta di rito ripetuto varie volte: Cognetti riempie d’acqua fino all’orlo un bicchiere di legno e lo lascia su un tavolo.
La regia di Fiore mio vuole rappresentare l’atto di appropriazione conoscitiva della realtà fondato sui sensi. Questo concetto viene esemplificato e dichiarato nei primi minuti tramite una scena semplice e al contempo emblematica: vediamo l’autore che si taglia i capelli gettando le ciocche recise in un lavandino di legno esterno alla casa. Così facendo, l’autore ci indica cosa tenta di trasmettere allo spettatore: la concretezza dell’esperienza, la realtà delle sensazioni, materializzate dall’atto di recidere parte del suo corpo e dalla vista di quelle ciocche tagliate e lasciate a decomporsi pian piano diventando così parte dell’ambiente. Insieme alle persone che incontra, Cognetti scia, cammina, immerge le mani nei ruscelli alpini, ne beve l’acqua e ne riempie la borraccia, gusta i piatti e il vino delle baite e dei rifugi alpini (oltre ad aiutare nella cucina), perlustra vecchi casolari abbandonati e si immerge nei loro resti, chinandosi per via del tetto troppo basso e toccando tutto ciò che il suo compagno di esplorazioni del momento gli indica e gli spiega. In particolare, sono le mani uno dei mezzi attraverso i quali si verifica questo atto di appropriazione conoscitiva del reale: queste vengono filmate spesso mentre sono all’opera, come quando Cognetti aggiusta un vecchio contenitore trovato nei ruderi incontrati nel suo girovagare, o mentre raccoglie l’acqua che sgorga dalla roccia per berla; oppure vengono inquadrate le dita di Sete Tamang, l’ex sherpa nepalese, intento a preparare le frittelle.
Quella del regista è quindi una vis tattile di appropriazione del mondo: toccando le cose le concretizza e le rende vere, dando luogo ad un processo conoscitivo della realtà di tipo aptico, basato sulla ripresa letterale dell’etimologia greca del termine, cioè «”capace di entrare in contatto con”. In quanto funzione della pelle, l’aptico, derivato dal tatto, costituisce dunque il mutuo contatto tra noi e l’ambiente, entrambi ricettori e portatori di un’interfaccia comunicativa» (Bruno 2006, p. 6). A questo stesso fine compartecipano anche la vista (ovviamente, trattandosi di un film) e l’udito, a cui è data parimenti grande importanza: ampio rilievo è attribuito ai suoni naturali, come il vento, il rumore del terreno sotto i passi, l’ansimare di Laki (il cane inseparabile del regista), lo scroscio dell’acqua e, più in generale, i vari rumori dell’ambiente circostante. A questi suoni si uniscono le bellissime musiche di Vasco Brondi, che tuttavia non si sovrappongono ai suoni naturali fino a eliminarli, tranne nelle scene di intermezzo fra i capitoli: non a caso, dato che anche questo espediente viene usato per segnalare la natura divisoria di queste brevi sequenze.
All’ottima riuscita di Fiore mio contribuisce anche l’attenzione alla forma, in particolare alla fotografia e alla regia: quest’ultima si divide fra il montaggio formale (presente, come già specificato, negli spazi che inframmezzano i capitoli) e un altro lineare e narrativo, dedicato ai dialoghi fra i personaggi e alle loro peregrinazioni. Anche la fotografia si caratterizza per la stessa duplicità: una naturalistica, realizzata tramite la macchina a mano talvolta tremolante che segue gli incontri e le conversazioni delle persone, in cui viene privilegiata la spontaneità della luce e della composizione, si alterna a un’altra caratterizzata da grande cura formale, presente in particolare nelle scene in cui la macchina da presa si dedica al maestoso paesaggio alpino, dunque nelle inquadrature prive di personaggi o nelle quali questi sono ripresi da molto lontano. In questi casi, la fotografia è attenta a costruire geometricamente le immagini: spesso utilizza degli elementi naturali per incorniciare le persone, inoltre tende a sfruttare particolarmente la regola dei terzi, quindi collocando gli elementi maggiormente importanti dell’inquadratura (parti del paesaggio e individui) sui punti di congiunzione di una griglia astratta che divide l’immagine in nove riquadri di dimensioni uguali. Per opposizione, le scene che inframmezzano i vari capitoli del film, in cui vediamo Cognetti riempire d’acqua il bicchiere di legno, sono costruite ricorrendo alla tecnica opposta a quella appena descritta, cioè alla disposizione degli elementi dell’inquadratura (in questo caso il protagonista e il bicchiere) nel centro dell’immagine. Anche questa differenza stilistica contribuisce a rimarcare l’importanza del tema ambientale relativo all’acqua e, per estensione, ai ghiacciai alpini, centrale in Fiore mio.
Riferimenti bibliografici
G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Mondadori, Milano 2006.
B. Grespi, Figure del corpo. Gesto e immagine in movimento, Meltemi, Milano 2019.
Fiore mio. Regia: Paolo Cognetti; sceneggiatura: Paolo Cognetti; fotografia: Ruben Impens; montaggio: Mario Marrone; musiche: Vasco Brondi; interpreti: Paolo Cognetti, Mia Tessarolo, Arturo Squinobal, Marta Squinobal, Sete Tamang, Corinne Favre, Remigio Vicquery, Laki; produzione: Samarcanda Film, Nexo Digital; distribuzione: Nexo Studios; origine: Italia, Belgio; durata: 80’; anno: 2024.