Tra i diversi film che hanno raccontato le dinamiche della profonda crisi economica del 2008, Margin Call (Chandor, 2011), affronta in maniera particolare il tema del collasso finanziario del sistema, mostrando la crisi nei suoi tratti essenziali. Ambientato nella sede di una grande società finanziaria di New York alle prese con tagli del personale, il film narra della lunga notte in cui un giovane businessman scampato al bagno di sangue dei licenziamenti scopre una falla nel sistema di analisi dell’azienda e ne profila la definitiva bancarotta. Il mercato è al collasso, l’azienda annovera tra libri contabili un gran numero di titoli tossici – fruttati da analisi di mercato basate su valutazioni difettose o che minimizzano i rischi – che nel giro di poche ore potrebbero portare a perdite superiori al valore capitale della stessa azienda. Anche a dispetto dei duri scontri tra i protagonisti, la catastrofica via d’uscita sembra essere l’unica via percorribile, e mai messa davvero in dubbio: vendere tutto per incassare il più possibile prima che la notizia si diffonda, a costo di inondare la borsa di titoli dal valore azzerato e di tradire il lavoro svolto sul mercato negli ultimi anni.
La meccanica del film impedisce una vera e propria crescita della suspence e una progressione verso il thriller o il film d’inchiesta, ma costruisce una serie di quadri che si susseguono all’interno dei vari spazi del grattacielo – tra lunghi corridoi, scale mobili, uffici e sale riunioni – in cui si mettono in scena le diverse posizioni morali dei protagonisti. In questo scenario claustrofobico sembra accentuarsi un carattere dimesso rispetto alla posta in gioco che non fa altro che sottolineare l’ineluttabilità dello scenario catastrofico a cui si va incontro: salvare il sistema, per quanto temporaneamente, a costo di barare e inquinare il mercato rovinando migliaia di investitori che si troveranno tra i conti bancari nient’altro che carta straccia. Il momento della consapevolezza dell’inevitabilità di tale scelta sembra in fin dei conti il medesimo istante in cui si contratta la ricca buonuscita o si pensa alle nuove possibilità di fare affari in un tale disastro. Quello che va in scena in Margin Call è il momento di rigenerazione di quegli stessi elementi tecnicamente responsabili della catastrofe. Nel silenzio degli uffici vuoti, delle strade deserte, sembra cristallizzarsi il momento della crisi, quello che Mario Tronti con una formula schumpetariana ha definito “distruzione creatrice”: un processo in continua rivoluzione che continuamente, al contempo, distrugge l’antico creando il nuovo.
La necessità di far emergere “il nuovo” in un contesto di profonda crisi dei valori che hanno sostenuto le democrazie contemporanee è invece lo scenario in cui il filosofo Thierry Ménissier intende indagare il tema della corruzione nel suo ultimo volume, Filosofia della corruzione (Cronopio 2021). Il punto di partenza è la consapevolezza di una crisi totale dei princìpi che hanno retto fin qui le istituzioni occidentali, erose dal fenomeno corruttivo che appare come parte integrante dei sistemi politici odierni. In particolare un approccio giuridico alla categoria della corruzione ha rivelato i fondamenti individualistici del diritto moderno e ha indotto ad un approccio del fenomeno puramente deontologico. Una tale prospettiva sembra ormai infeconda di fronte al diffondersi di fenomeni di “quasi corruzione” (lobbismo, “porte girevoli”, clientelismo) e impongono lo sviluppo di un differente approccio epistemologico.
Il fenomeno del clientelismo è in questo senso un caso emblematico. Con questo termine ci si riferisce a quell’insieme di pratiche con cui alcune élite sociali acquistano voti elettorali o servizi personali tramite indulgenze che si impegnano a distribuire una volta raggiunto il potere. Questo tipo di relazione ha in sé caratteristiche che collocano tali pratiche in diversi momenti della storia, rivelando una natura storicamente ricorrente: veri e propri rapporti di “lealtà” a élite sociali – siano esse l’aristocrazia, l’alta amministrazione reale o la borghesia affarista – rappresentano la permanenza di una forma tipicamente feudale, vale a dire, il rapporto ineguale degli individui in qualsiasi società gerarchica caratterizzata da una scarsa mobilità sociale.
Fatti comunemente integrati da risultar parte integrante dello “stile” della civiltà e considerabili, con Durkhaim, «fatti sociali totali», questa forma ibrida non è del tutto assimilabile a ciò che nel nostro mondo è definibile come corruzione ma ci permette di considerare le funzioni sociali storiche di certe pratiche e di sottolineare quanto talvolta certe forme di corruzione abbiano rappresentato una forma di redistribuzione delle risorse sociali. Diversamente dalla corruzione intesa in senso stretto, il fenomeno del clientelismo offre, infatti, la possibilità di considerare la nozione di scambio occulto come base di un certo modo di intendere la logica sociale nel suo insieme.
Ménissier propone allora un’indagine filosofica attorno a una questione che appare di natura eminentemente giuridico normativa, tentando così di aprire uno spazio alla possibilità di pensare la corruzione oltre il diritto e intravederne così l’essenziale carattere politico. Muovendo da una prospettiva sociale, oltre che normativa, Machiavelli è individuato senza dubbio come il primo nella modernità ad aver allestito un concetto di corruzione propriamente politico: né metaforico, né teologico, né tantomeno morale. E non è forse un caso se una tale esigenza sia maturata proprio in relazione alla profonda messa in discussione delle virtù politiche della Firenze repubblicana del XV e XVI secolo. La città-stato italiana, infatti, nella sua ricca struttura amministrativa, è interessata da un massiccio fenomeno di appropriazione indebita di fondi pubblici. Ma nonostante processi rigorosi, condanne morali e religiose esplicite o riforme amministrative, nessun mezzo ha veramente contrastato questo fenomeno degenerativo. Ménissier in effetti rivendica la centralità del pensiero di Machiavelli come radicale riformatore della crisi dello Stato e lo individua come pensatore capace di affrontare la trasformazione in atto nella Firenze della sua epoca, vivendo in prima persona «l’alterazione dei costumi politici» e avvertendo il turbamento causato dalla corruzione all’ordine politico cittadino.
L’approccio repubblicano di Machiavelli può offrire un’alternativa alla continua rigenerazione della corruzione e permettere di inquadrare il fenomeno come ambito pienamente politico inteso sia da un punto di vista istituzionale, in questo caso quello delle istituzioni fiorentine, sia in termini morali, cioè nel suo senso pubblico e civico. Nell’etica repubblicana la corruzione emerge non sotto il profilo deontologico né consequenzialista, ma pienamente “aretaico” ed è l’amor di patria, proprio del repubblicanesimo, ad essere individuato come il contravveleno della corruzione.
Da una prospettiva simile, allora, le pratiche corrotte o di “quasi corruzione” potrebbero essere viste non come casi isolati, ma come espressione empirica delle contraddizioni del sistema sociale; non una perversione o una patologia dei regimi, ma una vera e propria “forma di vita” che esprime il dinamismo di quelle forze della società non accolte dalla rigidità dei sistemi sociali e che in qualche modo si riorganizzano in un sottosistema parallelo. Dal punto di vista della legge penale la corruzione non è una frode qualsiasi, essa riguarda precisamente l’appropriazione da parte di un soggetto, tramite un intermediario, di un determinato bene che afferisce alla sfera pubblica. In campo giuridico viene così designato un particolare tipo di comportamento scorretto punito dal diritto penale, la cui qualificazione costituisce uno dei dispositivi volti a regolamentare il rapporto dei cittadini con la cosa pubblica. La legge riserva la qualifica di corruzione, dunque, ai rapporti illeciti che possono sussistere tra sfera privata e sfera pubblica, tra interessi particolari e Stato. Riprendere la teoria repubblicana di Machiavelli significa individuare una forza propositiva in grado di affrontare la corruzione contemporanea intesa come una profonda messa in discussione della separazione tra ciò che riguarda la sfera pubblica e istituzionale e ciò che concerne la sfera del privato o più in generale dello spazio del sociale.
Considerare la corruzione dal punto di vista normativo, ossia la corruzione come l’inadempienza di una norma, pone in una prospettiva che mette a strettissimo contatto i comportamenti e l’interiorizzazione della legge da parte dell’individuo, facendo della corruzione il segnale di una “intenzione” a corrompere. Tuttavia, come dimostrato, tra gli altri, da Weber, Kelsen o Norbert Elias, l’acquisizione di una tale caratteristica, lungi dall’essere innata, fa parte di una lunga storia, che si fonde con la rappresentazione dell’uomo moderno.
Sebbene costituiscano ancora la grammatica di base delle nostre pratiche civiche e delle nostre istituzioni, quegli stessi concetti quadro che hanno fissato la modernità non sembrano più validi e risulta decisivo svincolare il carattere morale della norma per considerare i fenomeni corruttivi al di là della responsabilità individuale. La teoria politica repubblicana, poiché non racchiude l’individuo nell’individualismo, sembra un buon punto di partenza per rinnovarne la riflessione, a condizione, però, di tener debitamente conto del carattere pluralistico delle odierne società democratiche, in cui non c’è spazio per la morale repubblicana classica, emersa da un mondo in cui lo stato sovrano si sentiva capace di imporre una moralità univoca. Migliori pratiche democratiche, allora, sembrano rappresentare sia la causa che l’effetto di una lotta efficace contro la corruzione.
Riferimenti bibliografici
T. Ménissier, Filosofia della corruzione, Cronopio, Napoli 2021.
Thierry Ménissier, Filosofia della corruzione, Cronopio, Napoli 2021.