Chiunque si sia cimentato, anche solo per brevissimo tempo, con lo studio delle immagini fotografiche, conoscerà di certo l’aneddoto di cui Roland Barthes si è servito per tracciare “l’essenza” della fotografia. Dopo la morte della madre, Barthes si trova a riordinare una serie di foto; nel risalire il tempo attraverso i diversi scatti fotografici – il tempo della Storia che lo separava in quel momento dalla madre – e per rintracciare la verità del “volto che aveva amato”, Barthes riconosce la madre nella foto che le era stata scattata da bambina nel Giardino d’Inverno. Ed è proprio da quella foto “finalmente sicura” che egli riesce a recuperare il noema della fotografia. Ovvero: non necessariamente «ciò che non c’è più», ma sicuramente ciò che «è stato». E tuttavia, continua ancora Barthes: «Tutti questi giovani fotografi che si agitano nel mondo, consacrandosi nella cattura dell’attualità, non sanno di essere degli agenti della Morte (…) bisogna pure che in una società la Morte abbia una sua collocazione; se essa non è più (o è meno) nella sfera della religione, allora deve essere altrove: forse nell’immagine che produce la Morte volendo conservare la vita» (Barthes, 2003).

Quando Ferdinando Scianna comunicò al padre la decisione di voler diventare un fotografo, l’uomo rispose: “Ma che mestiere è uno che ammazza i vivi per resuscitare i morti?”. Il padre si riferiva all’operato dell’unico fotografo in quel momento in attività, tale Coglitore, che fotografava i morti modificandone ex-post l’immagine attraverso l’aggiunta degli occhi: “Non sembrano vivi?”, chiedeva allora Coglitore. Nel racconto che apre il film Ferdinando Scianna – Il fotografo dell’ombra, il padre di Scianna – barthesiano ante litteram – sembra cogliere la tensione profonda che attraversa ogni scatto fotografico: quello tra la vita e la morte, tra il passato e il presente, tra l’adesso e il non ora. E, ad una prima lettura, è proprio questa contrapposizione a in-formare il documentario realizzato da Roberto Andò. 

Presentato alla 82esima edizione della Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia, il film racconta il lavoro e la carriera del fotografo Ferdinando Scianna. Non è la prima volta che Roberto Andò si cimenta con la vita di fotografi siciliani: lo aveva fatto già nel 2022 insieme a Letizia Battaglia con Solo per passione, in quel caso scegliendo però un formato diverso – la miniserie – e raccontando le vicende personali della fotografa attraverso la ricostruzione e l’interpretazione affidata a Isabella Ragonese (Letizia Battaglia appare, tuttavia, in alcune sequenze: all’inizio della prima puntata e alla fine quando, lasciando la mostra che vide le sue foto finalmente esposte a Palermo, esce tenendo per mano la sua “bambina con il pallone”). Per quest’ultimo lavoro, invece, Andò sceglie la forma documentaria, così come l’uso del bianco e nero: non solo per una sorta di adesione alla “formula” utilizzata da Scianna nei suoi lavori, ma – forse – per una vicinanza che è soprattutto biografica – oltre che geografica – e che lega la vita del regista a quella del fotografo

Il film, lo abbiamo detto, racconta la lunga carriera di Scianna – dagli inizi, quando fotografava i compagni di oratorio e di classe, passando poi per l’incontro con Leonardo Sciascia e la realizzazione del libro Le feste religiose in Sicilia (1965), l’incontro con Henri Cartier-Bresson e l’ingresso nell’agenzia Magnum, il lavoro per “L’Europeo”, le foto di Marpessa, ecc. – in un continuo movimento che dal presente “risale la Storia”. Del resto, non potrebbe essere diversamente: è il racconto attraverso le fotografie che ci costringe a guardare al passato, “all’imperfetto dell’obiettivo fotografico”. E tuttavia, è proprio quel movimento verso-la-Storia che qui ci interpella: nell’osservare il lavoro di Scianna, infatti, si ha davvero l’impressione di trovarsi davanti ad alcuni degli eventi che hanno segnato tanto le vicende del secolo scorso, quanto la storia della fotografia italiana e – aggiungerei io– dei media.

Allo stesso tempo, a fronte di questo sguardo al passato, l’intervento di alcuni amici – Gianni Berengo Gardin, Mimmo Palladino, Marco Belpoliti, Giuseppe Tornatore, Dacia Maraini – chiamati a “testimoniare” la vita di Scianna, ci trascinano nuovamente verso il presente. Un movimento che, tuttavia, non è solo temporale ma anche spaziale, geografico: se la prima parte del film si svolge, infatti, a Milano, eccoci poi viaggiare verso la Sicilia, accompagnare Scianna lungo i luoghi della sua infanzia, tra i limoni della sua terra e i mostri di Villa Palagonia, lì dove tutto ha preso forma: «Ho cominciato a fotografare intorno ai diciassette anni e la Sicilia era là. Ho cominciato a fotografare perché la Sicilia era là. Per capirla, e attraverso le fotografie per cercare di capire, forse, che cosa significa essere siciliano» (Scianna, 2011). Se, insomma, la Sicilia è “la metafora dell’Italia” – come suggerito da Sciascia – forse non è azzardato affermare che le fotografie di Scianna sono la metafora della Sicilia.

E ancora: è soprattutto qui che si concentra l’altro grande “scontro” che caratterizza l’operazione di Andò e che non può che tradursi nell’uso del bianco e nero del film: quella tra la luce e buio. È a partire da quella contingenza secondo cui “lì dove c’è molto sole, l’ombra è più nera” che Ferdinando Scianna si trova a fotografare; è davanti alla luce accecante della Sicilia che sfida la stessa pratica fotografica che egli scorge il “cuore della relazione tra il fotografo e la realtà”. Il rapporto tra luce e ombra non è, insomma, solo una questione estetica, bensì – soprattutto – estatica: è insomma questa eccedenza delle forze della natura a in-formare lo sguardo di Scianna, a con-formare quella sua capacità di intra-vedere le cose del mondo, ossia di posizionarsi sulla soglia e guardare-tra ciò che è manifesto e ciò che invece rimane nascosto per poi dare forma al reale. 

Ferdinando Scianna – Il fotografo dell’ombra è un caleidoscopio di immagini, racconti, aneddoti, volti e voci che, a partire dalla vita di Scianna, si propaga per l’intera durata del film. E, in questo senso, Ferdinando Scianna – Il fotografo dell’ombra sembra eccedere le intenzioni iniziali dello stesso Andò: partito come un tentativo di omaggiare il lavoro del fotografo, il film sembra uscire fuori da sé per diventare una riflessione sulla potenza dell’immagine fotografica, sulla sua capacità di riaprire costantemente la Storia, di rigiocare presente e passato, di restituire la vita e sopravvivere alla morte. Di raccontarci la luce – anche – a partire dall’ombra. 

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
F. Scianna, Autoritratto di un fotografo, Mondadori, Milano 2011.

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