Strana e bella parola, risonanza. Dalla Treccani online si legge che può essere eco, rimbombo, ma anche musicalità e sonorità. E non solo, dal momento che si presta a essere intesa anche in senso figurato, come eco, rumore, clamore, scalpore, curiosità, interesse. E ancora: impressione, meraviglia, ripercussione, sensazione, stupore. Insomma, i sinonimi sono tanti, sebbene l’azione, in fondo, sia la medesima: l’instaurarsi di un legame, se si vuole “reticolare”, tra percezione sensoriale uditiva e sue diramazioni nello spazio e, per estensione, nel mondo sociale.
Filmmaker autenticamente indipendente, Anna Marziano parla spesso di risonanza, come fosse una sorta di “riferimento” teorico necessario per capire come vedere e pensare (e forse vivere?) il nostro rapporto contemporaneo con le immagini. Nel concorso della Mostra del Cinema di Pesaro di quest’anno, si è avuto modo di vedere l’ultimo lavoro di questa autrice, Farsi seme, un cortometraggio senza sonoro la cui concezione/composizione, in un certo senso, sembra replicare proprio quei meccanismi di diramazione che troviamo nell’azione di una risonanza.
Nato come progetto per Utopiana, piccolo centro d’arte ginevrino con forte connotazione ecologica a cura di Anna Barseghian e Stefan Kristensen, il nucleo visivo di Farsi seme ci presenta immagini di donatori e donatrici di sangue (Avis Provinciale di Treviso), persone riprese con panoramiche molto vicine ai loro corpi. Questi movimenti di macchina estendono idealmente le braccia dei donatori e delle donatrici in rami, guidando il nostro sguardo verso un “fuori” che sconfina nella natura, tra spazi verdi, mani che toccano semi e terriccio, fiori che si aprono, dettagli di nervature di foglie, pigmenti, radici e altro. Nello stesso tempo, il tema del sangue viene anche concettualizzato come elemento coloristico di rottura dell’armonia prestabilita, come si vede per esempio in certe sovraimpressioni. Nel suo film, Marziano materializza questa doppia valenza del sangue nell’uso che fa di pigmenti naturali dell’ematite e della rubia tinctorum.
Ora, quanto scritto può, in un certo senso, bastare per una descrizione sommaria di Farsi seme, ma necessiterebbe di una ulteriore contestualizzazione per delineare l’idea della risonanza di Marziano. A questo proposito, nelle sue note al film, la stessa filmmaker scrive:
Alcuni anni fa, avevo iniziato a immaginare un microfilm in 16mm, in bianco e nero, breve e compatto, intitolato Germi, che non ho poi realizzato e si è andato così trasformando in Farsi seme. In Germi avevo intenzione di comporre frammenti pieni di dinamismo, immagini in movimento di tutto ciò che germoglia, scintilla, si apre. Si trattava di un film legato all’élan vital in tutte le sue forme. Nel corso del tempo – con l’esperienza della maternità, con le circostanze sociali ed ecologiche – l’atmosfera di Germi si è andata trasformando e si è ostinatamente assestata in un’espressione dello spirito generativo e costruttivo che si incarna nel film Farsi seme.
In questo film, ho traslato una domanda esistenziale in una domanda formale: l’immagine della bellezza e della tenerezza di cui mi ero intrisa da bambina, nel giardino di mia madre, può reggere di fronte alla prova della sofferenza fisica e morale delle persone care? Può coesistere con la violenza che grava su di noi da ogni parte (nelle relazioni interpersonali, nell’esperienza della malattia, nei conflitti nel mondo)?
Questo film nasce insomma dal senso di dissonanza tra la pratica della delicatezza e l’eccedere della potenza della vita in tutta la sua potenza generatrice e distruttrice.
Da quanto scritto da Marziano, si potrebbe quindi intendere che il suo insistere sull’idea di risonanza sia, in Farsi seme, qualcosa che abbia alla base una dissonanza tra delicatezza e potenza, e quindi si possa intendere come una modalità attraverso la quale “trasmettere” tale dissonanza, farla cioè emergere, diramare nella costruzione delle immagini, e quindi attenuarne l’irruenza.
Sul piano più squisitamente stilistico, l’idea di risonanza nel film di Marziano è esemplificata da un uso sistematico e insistito della panoramica. Interrogata sul perché di questa scelta, la filmmaker dice che «bisognava arrivare a costruire delle panoramiche che avessero più punti di irradiazione, e che si costruisse questa sensazione come fosse l’espressione dei momenti migliori di quel preciso contesto e di quel preciso momento.» Rispetto ai lavori precedenti di Marziano, questo approccio può apparire come una novità. La filmmaker ricollega questo cambiamento di registro a un passaggio da una focalizzazione sulla gioia della concentrazione, data dalla densità di determinate immagini e situazioni, a una gioia più incline alla leggerezza/elasticità della materia.
Nella scelta della panoramica come figura stilistica si può riscontrare anche un altro aspetto formale di interesse, cioè il fatto che il movimento del film è sostanzialmente un movimento teso all’orizzontalità. In un contesto teorico, e in relazione a Farsi seme, questo tipo di percezione può risultare senza dubbio collegabile a una visione del reale fatta di interdipendenza e interconnessioni, magari con echi di certa antropologia. E a proposito, come suggerisce la stessa Marziano, si potrebbe pensare al lavoro di quel grande antropologo che fu Ernesto De Martino, alla sua idea di trascendenza intersoggettiva orizzontale.
Nello stesso tempo, è interessante notare come questo movimento orizzontale, nel film, sia capace di mettere in connessione una serie di immagini che allo stesso tempo sono di grande essenzialità, delicatezza, e forza espressiva. Sono essenziali perché i corpi dei pazienti e gli spazi naturali – cioè le due aree del film – sono restituiti in dettagli. La delicatezza è invece data dal modo di presentare tali immagini: l’approccio di Marziano non è mai frontale ma sempre allusivo. Quanto alla forza espressiva, si può dire che il film trabocchi di potenza metaforica: dall’analogia tra braccia e rami all’uso dei pigmenti per textures rigenerative alla Stan Brakhage, Farsi seme mostra come una qualsiasi traccia del reale sia sempre potenzialmente pregna di rimandi ad altro.
A questo proposito, vale la pena sottolineare come, per Anna Marziano, la scelta di filmare sia motivata da ragioni specifiche. «Io ho grossi problemi con la sovrapproduzione di immagini» dice la filmmaker. La quale, però, ci tiene a precisare come anche approcci simmetricamente opposti, cioè schematicamente anti-produttivi, possano essere ugualmente dannosi: «Il punto, per me, è più esperienziale che teorico. Fare cinema non deve diventare una cosa totalitaria, un obbligo, per cui io devo solo fare cinema di found footage perché è l’unica cosa con cui “non inquino” l’iconosfera. Io posso andare a rovistare nei cassetti e vedere se quel materiale specifico che cerco c’è o meno. Se però non mi sento espressa da quel materiale o dal lavoro che posso farci, io penso di avere il diritto di filmare nuove immagini, ponendomi ovviamente requisiti etici: cioè come lo faccio, con che tecnologia lo realizzo eccetera.»
Si può allora forse concludere – provvisoriamente – dicendo che un cinema della risonanza può essere inteso come una prassi artistica (ma anche etica) che fa dell’economia dell’espressione la sua ragion d’essere. Un film diventerebbe quindi pensabile come un insieme di un numero minimo di segni capaci di potenziare al massimo i loro possibili significati. In un contesto del genere, ogni immagine “collezionata” conta, perché ogni immagine è una traccia visiva che si può potenzialmente legare ad altre immagini, anche prescindendo da mere somiglianze di facciata, siano esse narrative, grafiche, o sensoriali. Con la risonanza entriamo in un campo di possibilità espressive che, in un certo senso, può ricordare quanto altri, in altri ambiti, hanno raccontato e delineato con il nome di “pensiero analogico”.
Farsi seme. Idea, camera, montaggio, produzione: Anna Marziano; color grading: Armin Dierolf; origine: Italia, Svizzera; durata: 10’; anno: 2024.