È tutta una questione di ritmo, cioè di velocità differenziali e materie diversamente formate. Una questione di modulazione, di disciplina, di esercizio musicale tra tempi forti e deboli, arsi e tesi. Il nuovo libro di Enrico Redaelli (Orthotes 2025), propone di leggere tre grandi autori del Novecento: Freud, Lévi-Strauss e Deleuze in «termini pragmatisti, immanenti, abduttivi» (Redaelli 2025, p. 11). Così, il modo singolare dell’atto di pensiero, mimando la cinetica del filosofo nel mito della caverna platonica, è «una catabasi e un’anabasi, un moto indietro-avanti che ciascuno eredita passivamente per poi rimetterlo in gioco attivamente» (ivi, p. 15). La domanda allora si sposta dall’epistemologia, dal sapere, all’intercettare immanente, alla pragmatica, si tratta di «una potenza da captare e cavalcare, per cui la domanda “che cosa è?”, si risolve pragmaticamente nella domanda “che cosa può?”» (ivi, p. 17).

Merito del libro di Redaelli è il tematizzare tale etica processuale, ritmica e in definitiva liturgica. Larghi spazi sono dedicati al senso ritmico del rito nell’antropologia strutturalista e poststrutturale, alla potenza di ripetizione come continuo riattualizzarsi di una soglia tra mondo celeste e mondo umano, spartendo tale differenza a partire da un centro vibrazionale e vuoto dal quale tutto scaturisce. Una struttura ombelicale. Un terzo, il gesto rituale, che dà vita a due movimenti distinti, non trovandosi altrove che nelle due articolazioni di un unico atto, pur non confondendosi con essi. Il mito è quest’avvenire in un tempo vuoto, perciò generativo, fecondo, cosmogenetico, in cui in una strana temporalità si ripete un’origine avvenuta in illo tempore, cioè in nessuno dei tempi empirici dati al soggetto, ma in un trascendentale che non è mai esistito e perciò continua a sussistere ed insistere ai margini dell’esperienza empirica.

Nel Seminario XI Lacan trattando della pulsione tira in causa la scienza primitiva e ci dice che «il sapere, alle sue origini, consiste dunque in una combinatoria, in un gioco ritmico tra elementi opposti» (ivi, p. 144) ed è qui che l’economia pulsionale si esplica come una danza, da dove si dipartono «legge e sesso, Dioniso e Apollo, Eros e civiltà, nel loro intreccio ritmico» (ivi, p. 146). Redaelli parla di forza cieca attorno alla quale si sviluppa la soggettività e traccia nel primo capitolo i contorni dell’intera avventura psicoanalitica, perlomeno freudiana, come tentativo di ruotare attorno a un nucleo incandescente e perciò pulsionale, libidico. È l’economia libidinale quella che andrebbe messa in campo per spiegare la pulsione, non dello scambio, creditori e debitori, ma del dono o dispendio creativo inspiegabile per un apparato psichico che tenderebbe all’omeostasi. Al di là del principio di piacere, e al di là di ogni sua partizione organica, vi è un incollocabile, ciò che per gli strutturalisti funziona come casella vuota, entro la quale slittano i significanti, fondamentalmente antieconomico. Così Freud parla di ritmo irresoluto per definire il movimento elastico della pulsione,  «irresoluto perché è un movimento avanti e indietro. Non prima avanti, poi indietro, ma in ambo le direzioni simultaneamente» (ivi, p. 52). Lo strutturarsi della struttura o il pulsare della pulsione, l’enigma che buca ogni sapere, secondo Redaelli si può intercettare solo attraverso un modello ritmico, a due tempi, in battere e levare. Ed è qui che si gioca la partita, sul campo di un’ontologia modale che forse non è nemmeno più un’ontologia ma semplicemente un far danzare il pensiero (ivi, p. 225), e tentare di scendere a faustiani patti con le potenze diaboliche che ci abitano.

Ragionando sull’etimo di ritmo, Benveniste afferma che il rhythmós, che viene convenzionalmente collegato al verbo greco rhéō, allo scorrere fluviale eracliteo, in realtà è un termine tecnico della filosofia atomista, che indica già in Democrito lo schema (non a caso, schema è parola che, in un’analisi comparata, Benveniste associa al ritmo) dell’ordine naturale del mondo, di come tutte le cose stanno. Dicendo poi che, quando pensiamo al ritmo, sbagliamo a metaforizzarlo come contemplazione del gioco marino ed ondoso da parte dell’elleno primitivo, piuttosto dobbiamo riferirci ad una lex atomi, che, come ci insegna Lucrezio, è sottoposta a modificazioni sul continuo flussionale e morfogenetico.

Ora, immagino il signor Palomar, alter ego di Calvino, affacciato su un litorale, che tenta di leggere le onde per distinguerle numericamente una dall’altra, e quanto questa operazione risulti inconcludente e faccia tornare il protagonista a casa con un certo nervosismo e un’amara insicurezza. Beh, non mi sorprende. Quando ci si colloca al di fuori dell’esperienza immediata, sezionandola con lo strumento principe della filosofia come l’occhio, non si può che fallire, perché è un continuo discretizzare, comprendere, analizzare in fondo un reale che continuamente ci sfugge. È un vero metodo della trascendenza, quello del signor Palomar, perciò inefficace ed ineffettuale, piuttosto mi piace sognare un Palomar surfista, che accompagna, in sintonia, i marosi flutti, senza farsi irretire da ondulazioni e increspature, ma cavalcandole felicemente, quasi da ricadere in una zona di indistinzione: lui (soggetto) la tavola da surf (medium) e il mare (oggetto). Palomar si aprirebbe così a un’altra scena, cioè a una «Vita che si coglie nella propria piega. Vita che si fa potenza» (ivi, p. 259).

Enrico Redaelli, Etica del ritmo. Freud, Lévi-Strauss, Deleuze, Orthotes, Napoli 2025.

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