Il saggio di Giovanni Matteucci Estetica e natura umana, uscito da Carocci, è un libro la cui importanza filosofica va oltre le dichiarazioni d’intenti dell’autore. Lo stesso sottotitolo del libro – La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione – non rende appieno ragione del suo impianto teorico. L’ultimo termine usato (“espressione”) può servire a comprendere la portata e l’impostazione del lavoro. “Espressione” rientra tra quei termini del lessico filosofico che necessitano di un chiarimento preliminare: ogni filosofo che se n’è occupato ne ha dato una definizione diversa. Per comprenderne il significato qui in gioco dobbiamo fare riferimento al pensiero di Herder, autore fortemente presente in questo saggio.
“Espressione” non sta qui per il significante di un significato. Qui espressione significa innanzitutto concentrazione di energie da parte del “soggetto espressivo”: il “contenuto” dell’espressione non la precede, ma è per così dire anticipato da essa. Una proposta simile, circoscritta però a una ripresa del pensiero di Herder, si trova anche in Christoph Menke. Matteucci insiste infatti sul carattere “ante-predicativo” dell’espressione, vera e propria crux teorica per la fenomenologia husserliana che insiste sul carattere originario dell’intenzionalità (predicativa) della coscienza. Non a caso Herder è l’autore di un Saggio sull’origine del linguaggio (1772) in cui il linguaggio umano sorge da fenomeni come il grido. La storia di questo modo d’intendere l’espressività non si ferma qui. Basti pensare a quanto sostiene William James dell’emozione: secondo il suo noto esempio, non piangiamo perché siamo tristi; al contrario diventiamo tristi perché piangiamo. È il movimento espressivo a provocare in noi il sentimento (la Stimmung, il mood) come coloritura emotiva dell’espressione.
Si delinea qui una corrente estetica alternativa ad almeno altre due opzioni teoriche. Da una parte c’è la filosofia dell’arte, soprattutto d’ispirazione analitica, e in modo particolare l’ontologia dell’arte proposta da Arthur Danto. Matteucci mostra come, tentando di escludere le proprietà estetiche dalla definizione di opera d’arte, il filosofo americano non riesca più a rendere conto del complesso piano semantico dell’opera d’arte, non riducibile a spiegazioni di ordine logico, semiotico o linguistico. Dall’altra parte c’è un’estetica che rivendica per l’esperienza del bello lo statuto di riflessione sull’esperienza in genere. Ma questa seconda opzione, indubbiamente più vicina alla linea teorica di Matteucci, come egli stesso non manca di sottolineare, rinvia in ultima istanza all’idea kantiana secondo cui l’esperienza estetica avrebbe un carattere puramente riflessivo, non rivolgendosi alle proprietà dell’oggetto, saggiando piuttosto, in occasione di un oggetto determinato, le condizioni non-empiriche del fare esperienza. È un paradigma che, come ricorda l’autore, è stato esemplarmente formulato da Emilio Garroni attraverso la nozione di “guardare-attraverso”. E tuttavia, pur nella vicinanza al paradigma di un’antropologia filosofica fortemente orientata alla dimensione dell’aisthesis, quale è quello proposto da Matteucci, non possono non balzare agli occhi le differenze tra i due paradigmi.
Nella piega riflessiva che assume l’estetico all’interno del paradigma kantiano sembra affievolirsi proprio l’elemento espressivo che dona al nostro sentimento di piacere per il bello quella coloritura emotiva che ne fa qualcosa di più di un mero complemento delle nostre rappresentazioni degli oggetti. Nella proposta di Matteucci è in gioco invece un modo di stare al mondo, aprendosi a tutto ciò che ci circonda, concentrando le nostre forze (mentali e vitali) al fino di realizzare una “espansione” della nostra esistenza. Non a caso l’estetico è pensato qui come il luogo in cui comprendere la natura “estesa” della nostra mente, che non si risolve nei suoi aspetti cognitivi, ma investe appunto il plesso estetico-emozionale. In questo senso l’autore ha ragione a lamentare le carenze dell’approccio di Alva Noë all’estetica: approccio che, pur brillante e originale, manca di fornirci ragioni determinanti per giustificare la centralità dell’estetico per una teoria della mente estesa.
Si può dire in estrema sintesi che il problema teorico su cui si concentra il saggio di Matteucci si riassuma nel modo seguente: il dualismo cartesiano tra soggetto e oggetto, che si prolunga fino alle prime formulazioni della fenomenologia, concepisce tutta l’esperienza come “esperienza di” (intenzionale, oggettiva, predicativa), relegando a una fase primitiva quella modalità d’interazione con l’ambiente-mondo che l’autore qualifica come “esperienza con” – ad esempio attraverso l’apprezzamento di affordances (attenzionale, interattiva, ante-predicativa). L’“esperienza con” è una forma d’esperienza in cui la portata vitale dell’interazione, in un senso prima biologico poi esteso ambito culturale, si manifesta nel fenomeno espressivo. Qui si istanzia il nucleo pre-riflessivo dell’estetico. Ma dobbiamo fare attenzione a non confondere questo stato primario dell’estetico con uno stadio primitivo: si tratta tanto poco di una condizione arcaica del fare esperienza che essa prefigura al contrario quelle modalità di mente estesa che ritroviamo innanzitutto nell’operare attraverso strumenti. Dunque, direbbe Simondon, il sentimento estetico è originariamente un sentimento “tecno-estetico” – salvo che in Matteucci, con buone ragioni, l’accento va posto sulla “priorità antropologica” dell’estetico sul tecnico. L’estetico emerge quasi il motore dello sviluppo, perfino dell’evoluzione, della natura umana.
In questa cornice è possibile recuperare l’arte, sebbene in una prospettiva affatto nuova. Non si parlerà più tanto di “opera” quanto di “dispositivo”. Non tanto perché l’opera come categoria estetica non abbia svolto un ruolo preminente in molte epoche della storia dell’arte; quanto perché il riferimento al dispositivo artistico mette l’accento sulla riorganizzazione della propria natura e sulla capacità, tipica di homo sapiens, ad articolare, differenziare, modificare e raffinare la propria espressività. È interessante notare come il concetto di dispositivo, molto più di quello di opera, ci consenta di disegnare un arco che lega l’arte rupestre all’arte intesa “in senso estetico moderno”, così come di apprezzare la pertinenza estetica di fenomeni contemporanei come il design esperienziale o l’estetica del quotidiano. Infine, mi permetto di aggiungere, ci permette di considerare criticamente in un medesimo campo teorico, pur senza omogeneizzarli, fenomeni artistici culturalmente incommensurabili. Arte è la pala d’altare del Rinascimento al pari della cerimonia del tè giapponese. La prima, però, è un’opera, mentre la seconda è una pratica; alcuni direbbero una performance. Ecco, la nozione di dispositivo ci fornisce un nuovo strumento per riconsiderare le somiglianze (e le differenze) di famiglia tra campi estetici (e artistici) così lontani tra loro sul piano culturale.
Riferimenti bibliografici
A.C. Danto, La trasfigurazione del banale: una filosofia dell’arte, Laterza, Roma-Bari 2008.
E. Garroni, Estetica: uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992.
C. Menke, Forza: un concetto fondamentale dell’antropologia estetica, Armando, Roma 2013.
A. Noë, Strange Tools: Art and Human Nature, Hill&Wang, New York 2015.
G. Simondon, Sulla tecno-estetica, Mimesis, Milano 2014.
*Le immagini presenti nell’articolo e in copertina sono opere di Vladimir Kush.