«Due cose che non avrei mai voluto che fossero scritte sulla mia tomba: “Qui giace Paul Newman, morto per fallimento perché gli occhi gli sono diventati marroni” e l’altra era “Qui giace il vecchio che non si è sentito mai parte della sua epoca”». 

Due frasi che sintetizzano l’essenza di una personalità e di un interprete: una dicotomia tra l’apparire e l’essere, che l’attore supera con un percorso che non può prescindere da quello dell’uomo. È qui che si condensa forse uno degli aspetti che fa di Newman un unicum nel mondo del cinema, aspetti che creano l’attore e il regista, ma anche il punto di riferimento di una generazione artistica, nella quale egli si riflette ma non semplicemente uniformandosi; che prende le mosse dall’Actors Studio, senza divenirne “schiavo”, ma gradualmente ne digerisce gli stilemi, costruendo un modello recitativo proprio.

Grazie a questa unicità, Paul Newman, nato cento anni fa (e scomparso nel 2008), rappresenta una modernità di visione artistica: un attore che vive e incarna un periodo tra due epoche, traendo una lezione già moderna, come appunto quella dell’Actors Studio, e guardando, sia attraverso essa ma anche superandola, al futuro. Fa da ponte tra due generazioni, tra padri e figli del boom demografico (e il rapporto padre-figlio non a caso sarà al centro di molti dei suoi lavori); costeggia l’era da “rebel without a cause”, senza l’enfasi di Dean o di Brando, ma con una vicinanza emozionale all’umanità che racconta, incanalando un proprio sguardo sul mondo, “utilizzando” il mezzo espressivo, essendo più che interpretando. E poi, superati gli “anta”, continuando su questa linea, traspone sullo schermo il passaggio ad altre introspezioni, alla visione di una maturità sofferta, ma sempre celata dall’ironia, alla profondità di respiro che si traduce in un compimento del suo percorso attoriale, e anche registico: proprio il suo lavoro dietro la macchina da presa dovrebbe essere al centro di una riscoperta, lavoro in cui — da La prima volta di Jennifer (1968) a Lo zoo di vetro (1987) — l’impegno, la proprietà di sguardo, emergono con grande chiarezza, unendo la forza del cinema tradizionale all’adesione alla realtà, in un’universalità insita nel suo modo di approcciarsi alle storie e al racconto.              

La maturazione, il desiderio di far superare gli stereotipi e la bellezza fisica; l’impegno da liberal che scende in piazza contro la guerra e a sostegno dei diritti civili; le vicissitudini familiari (la morte del figlio per overdose): tutto ciò non è estraneo alla creazione artistica. Più volte, tra l’altro, Newman ripete che l’essere attore non esenta dall’essere un cittadino attivo, o meglio non deve portare a rinunciare alla cittadinanza; ma anche, appunto, vale il contrario. Qualcosa che, comunque, è insito in Paul Newman sin dai primi ruoli, quelli legati alle opere di Tennessee Williams — La gatta sul tetto che scotta (Brooks, 1958), La dolce ala della giovinezza (Brooks, 1962) — e di Faulkner  La lunga estate calda (Ritt, 1958) — , o ancora Hud il selvaggio (Ritt, 1963) e Nick mano fredda (Rosenberg, 1967): la tensione emotiva si unisce alla profondità del ruolo, al suo impatto politico-sociale, costruendo un modo unico di aderire al personaggio. Una peculiarità che — potrebbe sembrare paradossale — gli consente di attraversare ruoli e generi tra i più differenti (il film storico, lo sguardo sull’Old West, il cinema d’autore, il poliziesco, solo per citarne alcuni), ma sempre, anche negli inevitabili passi falsi di una carriera, con una costante: non lasciare mai cadere la linea del racconto, del personaggio stesso, non diminuire la forza interpretativa, non perdere di vista l’unicità espressiva e recitativa. E l’umanità che diviene fulcro dell’interpretazione stessa. Perché, come afferma lo stesso Newman, è per lui l’umanità ad essere prevalente sull’essere attore (esplicativo è il momento della maturità, in cui si dedicò in particolare alle opere di filantropia, sottolineando fino alla fine della sua vita l’importanza di questo aspetto come elemento fondante dell’esistenza stessa): ma in realtà, lo è in particolare sul divismo, su ciò che è apparenza, mentre l’arte cinematografica diventa, appunto, sintesi dei due aspetti. 

«I personaggi si attaccano all’attore. Forse la gran parte del malcontento è dovuto al fatto che, in quanto esseri umani, sentono che sono solo una serie, una collezione di vecchi personaggi che hanno interpretato. A volte ho questa sensazione anch’io. La sensazione di essere diventato un elemento di connessione tra le parti dei personaggi che mi piacciono e io le ho messe insieme e ho creato una sorta di essere umano», dichiara in un’intervista ripresa da The Last Movie Stars (2022), docu-serie firmata da Ethan Hawke (che restituisce proprio la profondità dell’uomo e dell’artista, nonché della coppia Newman-Woodward, in un’opera che stupisce sia per “l’indagine” e gli aspetti inediti che vengono proposti al pubblico, sia per l’innovativa struttura narrativa, che diventa anche una sorta di autoanalisi del mondo del cinema). Un reciproco scambio, dunque, con l’umanità che si insinua, mascherandosi, nella recitazione; con l’uomo che cerca di sparire, dietro il personaggio; e con il personaggio che lascia qualcosa dentro l’attore, lo costruisce, lo trasforma, ne diviene parte. Al di là del metodo Stanislavskij. Rimettendosi sempre in gioco, diretto dai più grandi registi, ma anche ponendosi al servizio dei più giovani — come con i fratelli Coen in Mister Hula Hoop (1994) —, sperimentando su se stesso.

Un modo di approcciarsi al mestiere poco emulato nel panorama odierno: nella sua capacità di superare schemi, steccati – il citato impegno al cinema, ma anche in tv, come con la sua ultima apparizione in Empire Falls – Le cascate del cuore (Schepisi, 2005), senza dimenticare il teatro -; di riflettere la sofferenza nelle figure che incarna, ma unendo anche il sarcasmo, l’irriverenza che cela la malinconia; di far nascere sinergie interpretative con colleghi di calibro: insieme a Robert Redford, con due soli film, Butch Cassidy (Hill, 1969) e La stangata (Hill, 1973), creò una delle coppie artistiche più riuscite e originali e soprattutto funzionali al racconto, sintesi perfetta tra leggerezza, ironia e dramma; così come con le nuove leve: in particolare Tom Cruise, di cui si può dire sia stato mentore e con cui girò un’altra opera tra passato e futuro, tra giovinezza e maturità, ovvero Il colore dei soldi (Scorsese, 1986); di muoversi con impercettibili gesti, improvvisazioni calibrate, per dare vita a personaggi immortali: su tutti, Frank Galvin, protagonista de Il Verdetto (Lumet, 1982), specchio di un’esistenza e di una chiave attoriale, che culminano nei tempi e nei toni precisi della memorabile arringa. Caratteristiche di un percorso sfaccettato che nella sua completezza diviene contemporaneo, anzi universale, e pertanto inimitabile. 

Riferimenti bibliografici
S. Levy, Paul Newman. Una vita, B.C. Dalai, Milano 2010.
P. Newman, Vita straordinaria di un uomo ordinario, Garzanti, Milano 2022.

Paul Newman, Shaker Heights (Ohio) 26 gennaio 1925 – Westport (Connecticut) 26 settembre 2008.

Tags     attore, Paul Newman, regista
Share