The Tree of Life (2011) di Terrence Malick si apre con un dramma tipicamente umano: la morte di un ragazzo, la rottura dell’armonia familiare. A distanza di anni da questa perdita prematura, il fratello Jack cerca ancora un senso per ciò che non può avere (un) senso. Ha bisogno di convincersi che la sua tragedia fa parte di un disegno più grande, che la fiamma intermittente della sua esistenza sia immersa nella luce continua della vita universale. Ma ha anche bisogno di raccontarsi la storia di questa vita secondo un ordine preciso che culmina in una meta, in un fine: l’uomo. Dalla formazione delle galassie alla nascita della Terra, dall’avvento dei primi organismi pluricellulari a quello dei dinosauri. Poi un meteorite scagliato da una mano invisibile e il silenzio della natura primordiale, l’avvento dell’uomo: questa é l’affascinante genesi evoluzionista mostrata magistralmente da Malick.
«Come sei arrivato a me? Sotto quale forma? Sotto quale aspetto?». L’uomo è l’essere che soprattutto di fronte alla morte si chiede «perché» e ancor prima di ricevere risposta, di mangiare all’albero della conoscenza, è scacciato dall’Eden. Dall’Eden dell’inconsapevolezza in cui sembra permanere beato il gregge del Canto notturno leopardiano. Se il risveglio della coscienza, il domandare sull’essere delle cose pone l’uomo al di fuori dell’armonia silenziosa del cosmo, la filosofia legittima una posizione particolare dell’uomo nel cosmo? Demone, animale e divino insieme? Insomma, come insegna la tragedia attica, un essere mostruoso.
È probabile che siano questi gli interrogativi che coagulano la grande solidità di Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis, 2023), volume che raccoglie una sequenza di saggi di Alberto Giovanni Biuso, redatti in un ampio ventaglio di anni. Se Biuso non cade nella tentazione hegeliana di fare una filosofia della storia della filosofia, si può individuare comunque un motivo interessante che anima la sua ricerca e lega autori apparentemente distanti come Spinoza e Nietzsche, Platone ed Heidegger. Il leitmotiv è la critica all’umanismo che non si traduce, però, nel suo rovescio, cioè in un anti-umanismo, in un disprezzo dell’umano e in un suo superamento ascetico in vista di un orizzonte trascendente. Tutt’altro: si tratta semmai di ritracciare i confini, di ricollocare l’uomo, spostarlo dal centro, di soffiare via tutte quelle nuvole di onnipotenza divina cui si è aggrappato per riancorarlo alla terra, a quel piano immanente di cui è solo una piccola parte. Una critica all’umanismo parte innanzitutto da un tributo alla filosofia greca, cosciente del limite (πέρας) invalicabile dell’umano, che è figlio di Chronos, del tempo.
Una critica all’umanismo mette in luce le ombre dei monoteismi religiosi: il Dio-persona, la pretesa di trovare una verità unica che contrariamente alla molteplicità del politeismo mina la libertà filosofica e umana in senso lato. Una critica all’umanismo ridimensiona il progetto della filosofia moderna che trova nell’atto del pensiero il principio del reale e fagocita nella mente umana la complessità della materia, denigrando così al rango di machina tutto ciò che pensiero non ha, soprattutto la vita animale. Una critica all’umanismo non può che toccare la Ragione onnipotente di Cartesio e quella onnipresente di Hegel, ma deve risparmiare il razionalismo come atteggiamento di ricerca lucida, rigorosa e talvolta scettica, disincantata, circa la realtà dell’Universo e dell’esistenza umana.
Se la ragione tracotante dell’Idealismo è cieca in quanto si ed illude di poter occultare il limite inoltrepassabile del corpo che circoscrive la vita dell’uomo e la sua conoscenza, il razionalismo è invece lo sguardo aperto sino al disumano. Perché, se come canta John Lennon, «la vita è facile ad occhi chiusi», umano è propriamente vivere di illusioni. Serve perciò uno Übermensch, un oltre-uomo, un titano, serve la forza del genio leopardiano per tenere gli occhi ben spalancati, senza battere ciglio, di fronte al vero, senza aver paura di rimanere accecati. «Filosofia è fissare la Gorgone e non morire». All’islandese del dialogo leopardiano, Madre Natura dà una delle risposte più terribili che una madre possa dare. Essa non è crudele nei confronti dell’uomo e delle altre specie viventi, ancor peggio: è indifferente. È Ἀνάγκη, la necessità che governa senza un fine se non quello della continua rigenerazione della materia. È ἀράχνη, il ragno che tesse cieco, al buio, senza un disegno preciso, la tela in cui si intrecciano i fragili fili dei viventi e non si avvede nemmeno se uno di questi si spezza per sempre, se una specie scompare dalla faccia della terra, sia essa animale, sia essa umana.
Una volta giunti a una tale verità sull’esistenza, perché continuare a vivere, a interrogarsi? Perché continuare come Leopardi a scrivere? A cosa serve la filosofia se non è capace nemmeno essa di consolarci raccontandoci che dietro l’insensato si nasconde un solo senso: l’uomo? Se non è capace di far trionfare l’umano sul caos, di trovare nella grandezza della ragione umana il τέλος, il punto fermo del divenire cosmico?
Serve forse a guardare fisso in volto la Medusa dell’insensatezza, della miseria, del dolore individuale senza rimanere pietrificati in esso, ma piuttosto inscrivendolo nella dinamica universale di nascita e morte, del tutto come divenire incessante, come tempo. Serve a ricordarci che il dolore dell’esser-ci accomuna tutti coloro che si sono individuati in questo tutto, umani e animali, e a trovare in questa comunanza del sentire il fondamento di un’etica che abbracci tutti i viventi. Serve a svegliarci dal potere delle illusioni pur riconoscendo, come ci insegna Nietzsche ne La nascita della tragedia, che queste, assieme alla serenità promessa dalla forma, dall’arte, dalla bellezza, sono il motore necessario dell’esistenza.
Chronos segue in particolare le orme di chi non ha ceduto alle lusinghe dell’umanismo antropocentrico con le sue derive speciste, in un movimento che lascia sempre sullo sfondo quell’antisoggettivismo di cui i greci sono stati maestri. Stupirà non poco trovare allora tra queste pagine un filosofo come Giovanni Gentile; ma il confronto è qui prova di grande originalità e raffinatezza critica. Il sistema gentiliano è di solito presentato come l’apoteosi della soggettività assoluta, il compimento di quel percorso moderno, iniziato da Cartesio, culminato in Hegel, che rinviene nel soggetto il punto archimedeo della conoscenza del reale con il conseguente primato del pensiero sull’essere. Per Biuso, invece, si dispiega agli occhi del lettore una filosofia ricca di contraddizioni e di spunti spesso oscurati da altri approcci storiografici che hanno puntato piuttosto i riflettori su un idealismo giustamente definito inaccettabile perché inaccettabili e imbarazzanti sono i suoi esiti antropocentrici.
L’accento è posto sulla centralità nell’attualismo gentiliano di un pensiero che è processo in atto, del divenire come nucleo metafisico del mondo. Allo stesso tempo – e non si può non ammetterlo – Gentile riconduce quel divenire all’atto creatore di una Mente assoluta, di una soggettività trascendentale. Ancora una volta utilizzare i termini mens, spirito, per definire il principio ontologico, equivale ad antropomorfizzare l’essere, a dargli un volto umano in un ritratto affine al Dio-persona del Cristianesimo. Del resto, bersaglio prediletto di qualsiasi idealismo è proprio il materialismo della metafisica greca, dello spirito umano che si aliena, che cerca la ragione del proprio essere al di fuori di sé, nella natura che è acqua, fuoco, soffio vitale, che è eterno divenire della materia. Il bersaglio dell’idealismo, a cui la lettura di Biuso contrappone l’alternativa lucreziana di un materialismo ontologico, è l’oggettivismo greco che l’avvento del Cristianesimo, al pari di quanto fa con le religioni naturalistiche, scalza dalla storia del pensiero. Non è forse la figura di Cristo, ancor prima dell’uomo vitruviano, a spostare l’uomo al centro del cerchio, a renderlo padrone della natura, misura di tutte le cose, ad estendere la sua area fino al punto in cui in essa si dispiega l’intero?
In un percorso che parte dal mondo greco sino ad avventurarsi lungo vie più recenti – e spesso poco esplorate – del pensiero contemporaneo, Chronos attraversa più di mille anni di storia della filosofia occidentale, restituendo un’immagine di quest’ultima forse più affine alla saggezza orientale intesa come esercizio. E non perché il piacere fine a sé stesso della storia della filosofia, che è pur sempre filosofia, è qui piegato esplicitamente alla costruzione di un’etica, alle esigenze di una ricaduta pratica nella quotidianità individuale e sociale, esigenze che, nel loro essere pressanti, affretterebbero i tempi, inquinerebbero il disinteresse e la serenità della ricerca teoretica. Si tratta piuttosto di una ricaduta collaterale che sfocia non solo in un’etica teoretica, ma anche in una teoresi etica. Perché già nella lettura di questi scritti compiamo un esercizio di decentramento dell’umano oggi più che mai necessario: un esercizio di decentramento che convoca come imputata in tribunale proprio la filosofia. Ma dall’altro lato, in veste di giudice, secondo il principio del criticismo kantiano, la filosofia non potrà che trovarsi davanti la sua storia, in altre parole sé stessa. A lei sola tocca cimentarsi, come di fronte a uno specchio, in questi esercizi di decentramento, ripercorrendo-si, interrogando-si, recuperando soprattutto nelle origini greche il suo spirito originario.
Alberto Giovanni Biuso, Chronos: Scritti di storia della filosofia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2023.