«Ford ha un senso eroico della vita, ed è per questo che i suoi personaggi li abbiamo visti tutti, in fine, agire o morire eroicamente. […] C’è tutta l’America […]; c’è l’aspirazione di tutto un popolo all’eroismo, a fare della vita una serie di atti che valgano a qualche cosa». Così scriveva nel 1945 un giovane Giuseppe De Santis in un articolo sul regista americano.
Tutto il cinema di Eastwood, che ha in Ford un decisivo modello di riferimento, ha continuato a mettere al centro della sua messa in scena, epica ed etica, la figura dell’eroe. L’eroe come emanazione delle forze della comunità, l’eroe che, conducendo una collettività attraverso lo spazio, contribuisce a renderla una comunità.
Gli ultimi tre film in particolare, American Sniper, Sully e Ore 15:17 – Attacco al treno (tutti e tre ispirati a fatti e personaggi reali) ritornano su questo tema, centrale d’altra parte nel cinema americano nel suo complesso. Quello che emerge però da questi film, e più propriamente dagli ultimi due, è la rappresentazione di un eroe per caso, “suo malgrado”. Tuttavia, se l’eroismo del cecchino Chris Kyle e del pilota Sully Sullenberger era basato su un alto livello di professionalità e performance (che permetteva, per esempio, a quest’ultimo di compiere un ammaraggio d’emergenza sul fiume Hudson salvando 150 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio), nessuna vera qualità sembra invece contraddistinguere i tre protagonisti di Attacco al treno, che si presentano a tutti gli effetti come eroi qualsiasi, involontari. Eroi che cercano di passare all’azione ma questa è spesso inibita. È il caso soprattutto di Spencer Stone e Alek Skarlatos, perché il terzo componente del trio, Anthony Sadler, è più che altro il narratore interno delle vicende degli altri due (è sua la voce fuori campo che introduce all’inizio la storia e sue sono le parole che il presidente Hollande cita a chiusura del discorso in occasione del conferimento della Legion d’Onore: “La lezione che dobbiamo ricordare è che in un momento di crisi come questo, la gente dovrebbe comprendere la necessità di agire. Quando è in corso un attacco terroristico come questo, dobbiamo fare qualcosa: non solo stare lì passivamente”).
Certo, le tecniche di jujutsu e quelle per il soccorso d’emergenza apprese da Stone nel periodo dell’addestramento militare si rivelano poi decisive per bloccare il terrorista sul treno e salvare la vita a un passeggero ferito ma non è la costruzione di un eroe infallibile che il film racconta (siamo lontani appunto dal cecchino di American Sniper, che proprio per le sue straordinarie capacità meritava il soprannome di Leggenda). Stone e Skarlatos al contrario sono sin dall’inizio ai margini dell’istituzione scolastica (per gli insegnanti della loro scuola cattolica soffrono di deficit di attenzione) e di quella militare (nessuno dei due eccelle particolarmente nell’addestramento). Sono attratti dalla guerra, soprattutto dalla componente di fratellanza e amicizia virile (nella cameretta di Stone campeggia un manifesto di Full Metal Jacket e dell’eastwoodiano Lettere da Iwo Jima) ma una volta arruolati, Skarlatos si troverà in Afghanistan quando, come dice via Skype a Stone, ormai non importa più a nessun di questo Paese e i suoi compiti non sono diversi da quelli di una guardia giurata di un supermercato.
Ora, questo racconto di eroi per caso fa del “caso” la struttura stessa del film. Soprattutto da Gli spietati (1992) in poi, il cinema di Eastwood non risponde semplicemente a una logica d’azione, secondo l’uso che ne fa la produzione americana corrente ma, insieme all’utilizzo dei generi, entra in un rapporto contrappuntistico con le storie messe in scena, diventando veicolo per il racconto di scelte morali e percorsi esistenziali. Da questo punto di vista è interessante far riferimento a un altro film attualmente nelle sale, L’uomo sul treno di Collet-Serra, assimilabile per certi versi ad Attacco al treno: oltre che per la location (il treno) anche per il racconto dell’eroismo della classe media (il protagonista è un assicuratore con un passato però di poliziotto, che si trova coinvolto in una cospirazione criminale). Se il film di Collet-Serra si basa su una stringente logica d’azione, in quello di Eastwood è proprio questa ad essere indebolita a vantaggio dell’apertura aleatoria degli incontri. Se vogliamo rintracciare una matrice “neorealista” del film, come è stato fatto a partire dall’utilizzo dei veri protagonisti della vicenda (al contrario dei protagonisti delle due pellicole precedenti interpretate da divi come Bradley Cooper e Tom Hanks), è a questo decentramento dell’azione che bisogna guardare.
A una costruzione narrativa in cui l’accadimento tarda e al contrario procede per deviazioni, per un continuo “girare a vuoto”. E quando l’accadimento, annunciato sin dal titolo, arriva, questo è risolto velocemente e senza suspence. E significativamente ciò avviene in un luogo-simbolo del cinema, il treno, indissolubilmente legato all’epopea western, emblema del progresso, della conquista, della colonizzazione (viene anche in mente 3:10 to Yuma di Daves, a cui il titolo del film di Eastwood non può non far riferimento, costruito sul tempo dell’attesa). Perché sono i percorsi esistenziali dei personaggi il fulcro del racconto, percorsi segnati da incontri capaci di cambiare il corso di una vita, di spingerla verso “un valore più alto” come dice Stone. Incontri casuali ma determinanti (la ragazza di Los Angeles che Stone e Sadler incontrano a Venezia e che non ritroveremo successivamente; l’uomo che nel pub in Germania li convince ad andare ad Amsterdam e poi anche il cambio di posto nel treno ecc.), banali e straordinari (il viaggio in Europa dei tre è continuamente e dichiaratamente sotto il segno dei cliché: quello della canzone italiana – Volare che accompagna la visita di Roma –, il cliché delle belle donne – la ragazza procace che accoglie Stone e Sadler in albergo e che i due spiano sotto la gonna –, l’Italia da cartolina con relativi selfie al Colosseo, a piazza del Popolo, piazza di Spagna, San Pietro e poi a Venezia).
Eastwood destruttura qui la grande forma epica del suo cinema (un’operazione coraggiosa che ha spiazzato buona parte della critica, che ha visto il film come un inciampo del regista americano), aprendosi a un racconto che elegge ad eroi degli uomini qualsiasi, senza qualità.
Non è più tempo di eroi epici. Il cavaliere pallido è ora un’immagine stampata su una t-shirt, quella di Skarlatos.
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