L’attenzione per le questioni ambientali costituisce ormai una costante nel dibattito degli ultimi decenni. Al 1984, ad esempio, risale l’uscita di Nausicaä della Valle del vento, celebre pellicola di animazione diretta da Miyazaki. Di questo film, distribuito più di trenta anni fa, colpisce ancora l’attualità del messaggio ecologico: la foresta inquinata non si pone in ostilità con l’essere umano, anzi si sacrifica in un estremo anelito di rigenerazione. Tuttavia, a fronte della persistente inattività della cultura dominante, si rivela sempre più necessario un tempestivo e ben meditato intervento.
Alla possibilità di costruire nuove narrazioni per un pianeta in difficoltà, presentando, al contempo, un ricco serbatoio di concetti, pratiche, idee utili a orientarsi all’interno della complessa crisi socio-ambientale, si rivolge l’antologia Environmental Humanities vol. 1. Scienze sociali, politica, ecologia (Derive Approdi 2021), curata da Daniela Angelucci, Marco Armiero, Daniele Balicco, Ilaria Bussoni, Dario Gentili e Federica Giardini. Il volume è una preziosa raccolta di contributi eterogenei, accomunati dal medesimo obiettivo di provare a indicare una via alternativa all’egemonia del discorso neoliberale, teso a promuovere una visione “aziendalistica” dell’accademia, fondata sulle nozioni di efficienza e utilità. Prendendo dunque le distanze dalla vulgata tradizionale, che intravede nel concetto di Antropocene una mera esaltazione dell’attività trasformativa, i testi selezionati affrontano in maniera critica le molteplici questioni legate al territorio, rivendicando lo spessore sociale e politico delle discipline umanistiche. In questa direzione, le Environmental Humanities, la cui diffusione si estende ormai ben oltre i confini del mondo anglosassone, propongono un innovativo metodo d’indagine, incentrato sull’intersezione tra prospettive differenti. Vi è la convinzione, invero, che lo scenario dischiuso dall’attuale crisi ecologica non sia da indagare mediante i soli strumenti delle cosiddette scienze dure (matematica, logica, biologia, chimica, fisica), ma anche attraverso peculiari chiavi di lettura, individuabili in altri campi di studio.
In tal senso, ad esempio, il tema dell’alleanza inter-specie proposto da Donna Haraway offre una risposta originale alle urgenze del presente: è nell’ipotesi di stabilire relazioni impreviste tra umano e non umano, infatti, che la filosofa americana intravede un modo per sfuggire alle trame del potere. In una simile prospettiva, l’abilità di sostare all’interno dei problemi, senza abbandonarsi alla tentazione di ricorrere a soluzioni facili, espedienti o vie d’uscita, rappresenta una risorsa preziosa per provare a rispondere alle sfide della contemporaneità. Come scrive Haraway nelle pagine introduttive di Chthulucene (2019), restare a contatto con il problema significa, in buona sostanza, maturare «la capacità di essere veramente nel presente, ma non come un evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati» (Haraway 2019, p. 13). Nei tempi «confusi, torbidi e inquieti» che avvolgono il pianeta (ibidem), le scienze umane ambientali disegnano allora un’opportunità per aprire lo sguardo e mettere in discussione i propri punti fermi, sollecitando così la nascita di incontri inattesi e ibridazioni.
Prima di soffermarsi su alcuni contributi presenti nell’antologia, vale la pena rivolgere lo sguardo indietro, ripercorrendo le tappe che hanno condotto alla genesi del volume: tale operazione permette di comprendere più a fondo la rilevanza di quella vocazione collettiva che anima l’intero progetto. Nel 2015, presso l’Università di Roma Tre, un gruppo di docenti provenienti da differenti ambiti disciplinari (filosofia politica, estetica, geografia, urbanistica, architettura) dà avvio a un laboratorio dedicato alla città. In breve tempo, l’iniziativa diventa un autentico spazio di libertà e approfondimento sul presente, lasciando emergere, durante le varie lezioni, il desiderio di esplorare il complesso di esperienze e pratiche legate al territorio. Siffatta attività fornisce sin da subito le basi per una collaborazione proficua e duratura tra l’istituzione universitaria e l’ambiente circostante, creando un terreno fertile anche per la riflessione teorica. Su questa scia, il dialogo con la caotica realtà urbana, uno degli obiettivi più ambiziosi del laboratorio, si pone a fondamento dell’introduzione, presso il medesimo Ateneo, del Master in “Studi del Territorio” e del Corso di laurea magistrale in “Scienze umane per l’ambiente”. Proprio in questa linea di ricerca s’inserisce a pieno titolo il libro dedicato alle Environmental Humanities, la cui propensione appare costantemente aperta all’incontro e alla sperimentazione; d’altronde, è la comunità scientifica stessa a confermare l’importanza di «un radicale processo di convergenza delle scienze umane verso ricerche sulle questioni ambientali sempre più interdisciplinari» (Braidotti, Klumbyte, Weidner 2021, p. 43).
All’interno della sezione Ergo vivo, dedicata all’intrinseca vitalità della materia, Anna Lowenhaupt Tsing riflette sulla necessità di una «rinascita olocenica» per garantire forme di coesistenza tra l’attività umana e un’ampia varietà di enti. Prendendo le mosse dai suoi studi più recenti, l’antropologa americana si sofferma sulle caratteristiche di una particolare specie di fungo, il matstutake, apprezzato prevalentemente in Giappone per il gusto prelibato e diffuso anche in altri paesi dell’emisfero boreale. Crescendo nelle zone perturbate dalla presenza umana, questo fungo racchiude in sé la capacità di nutrire gli alberi, partecipando così alla prosperità delle foreste. Le straordinarie proprietà di cui gode il matsutake contribuiscono a tracciare inediti scenari di sopravvivenza tra le rovine: è nell’analisi di altri organismi, nella scoperta dei loro imprevedibili intrecci, che si nasconde dunque «la vera sfida per l’antropologia» (Tsing 2021, p. 186).
In questo panorama concettuale, Tim Ingold rivolge lo sguardo alle fitte linee di corrispondenza che intercorrono tra i passi e la coscienza. Lungi dal rappresentare un mero spostamento del corpo da un luogo a un altro, l’atto del camminare si trasforma in un eccezionale modo di pensare e conoscere: siamo immersi nel mondo, intrecciati con esso in una relazione di continua prossimità. Al tempo stesso, percorrere un sentiero coincide con la possibilità di entrare in contatto con le innumerevoli forme di vita che popolano il suolo. Nella prospettiva aperta dall’antropologo inglese, «la mente estesa del viandante “infiltra” il terreno lungo una miriade di percorsi, ma anche, e inevitabilmente, forma grovigli con le menti di altri abitanti» (Ingold 2021, p. 214). Il tema del camminare come pratica estetica ritorna altresì nel saggio firmato da Paola Berenstein Jacques e rivolto alle esperienze corporee della città. Attraversare gli agglomerati urbani facendosi guidare soltanto dai segni, abbandonando per un istante le tradizionali mappe geografiche, può rivelarsi un’opportunità per lasciare emergere l’ignoto e lo sconosciuto. Naturalmente, come scrive Walter Benjamin tra le pagine di Infanzia berlinese (1950), imparare a perdersi in una città richiede un certo addestramento. Ed ecco, allora, che la pratica dell’erranza diviene una vera e propria arte, in grado di de-funzionalizzare lo spazio urbano: le passeggiate senza scopo, condotte tra le strade, i vicoli e i quartieri di una città soltanto in apparenza ritenuta familiare, consentono di riscoprire il fascino della lentezza e accogliere così la potenza dell’incontro.
Nel saggio che chiude il volume Frédérique Aït-Touati e Bruno Latour esplorano il legame tra la scienza e l’arte ragionando sulle infinite potenzialità del teatro di «sperimentare lo spazio in cui abitiamo» (Aït-Touati, Latour 2021, p. 274). L’idea trova origine nell’ambito del progetto Gaia Global Circus (2010) che, attraverso gli strumenti offerti dalla filosofia e dal teatro, vede coinvolto lo stesso Latour, insieme a un gruppo di artisti e ricercatori, nell’indagine sul rapporto dell’umano con l’ambiente. Tra le manifestazioni del progetto, si richiama l’omonimo spettacolo scritto da Pierre Daubigny e rappresentato nel 2013 in varie città della Francia. L’opera costituisce un tentativo di mettere letteralmente in scena il movimento della terra, offrendo allo spettatore la facoltà di ascoltare il ritmo del suo respiro: nonostante il potere di Gaia rimanga un enigma insondabile per tutti gli scienziati, è almeno possibile imparare a «diventare sensibili alle sue performance, nei sensi semiotici e teatrali del termine» (ivi, p. 276).
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Infanzia berlinese, Einaudi, Torino 2007.
M. Boscarol, a cura di, I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista giapponese, Mimesis, Milano-Udine 2018.
D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
Id., Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, Derive Approdi, Roma 2019.
Environmental Humanities vol. 1. Scienze sociali, politica, ecologia, a cura di Daniela Angelucci, Marco Armiero, Daniele Balicco, Ilaria Bussoni, Dario Gentili, Federica Giardini, a cura di, Derive Approdi, Roma 2021.