Nello spettacolo del Teatro Valdoca ENIGMA. Requiem per Pinocchio – che, dopo due anni di preparazione in situazione pandemica, ha debuttato al Teatro Bonci di Cesena a metà maggio per sole due repliche – Pinocchio è un mucchio di tronchi, un ammasso di rami di potatura di viti ed olivi, con una testa scolpita, adagiato su una lettiga. La prima azione di Silvia Calderoni, che mette in azione la creatura di Collodi, è quella di lasciarsi cadere a terra, morta – dopo pochi istanti dall’essere entrata in scena con sonori vocalizzi e risate. Nel divenire dello spettacolo, Pinocchio si rianima e si dà al mondo con multiforme dinamismo: ingaggia lotte convulse con un antagonista incorporeo, si strattona da ceppi e lacci invisibili che lo frenano. Figura duplice, acrobatica, guizzante, Silvia Calderoni ora dondola e serpeggia, inerpicandosi sui gradini di una esile scala, ora si tramuta in materia inanimata – polarità questa che caratterizza il modo con cui Cesare Ronconi tratta i corpi in scena. Questa figura si è aggirata come icona riconoscibile in altri spettacoli del Teatro Valdoca, insieme al fuoco e alle pennellate di colore rosso e bianco sui corpi dei performer: “In altri miei spettacoli – conferma il regista – il burattino era presente come scultura; […] diventava una figura impertinente rispetto alla scena” (Marino 2021). Ora Ronconi assume palesemente questa storica impertinenza a fulcro del suo Requiem, magnificando l’enigma di questa icona-ossessione ed esponendone parimenti la misteriosa complessità, come interrogazione, a noi spettatori.
Cosa attrae Ronconi in questa figura? Il suo essere incoercibilmente indomabile, il suo abitare luoghi pericolosi, il suo sfidare le leggi di gravità per impegnare il corpo in acrobazie, in scatti privi di destinazione e funzione, in movimenti privi di reali obiettivi. Un magma di energia profusa in sé, non per qualcosa. Pinocchio riesce ad esser tutto questo, nella sua furiosa ribellione adolescenziale: “Per me l’adolescenza è la negazione dell’essere allevati in modo preciso; è il momento in cui rifiuti i contesti che ti vengono imposti. È un momento di rottura del linguaggio, quello che si esprime nella cultura, nei libri, messo in difficoltà dalle azioni fisiche” (ibidem).
In questo ENIGMA Pinocchio/Silvia esegue le sue azioni sul palcoscenico, mentre Mangiafuoco (Matteo Ramponi) e la Fata (Chiara Bersani) abitano la platea e successivamente ascendono al palco, nell’universo indisciplinato del burattino. Nello spazio della platea rivestita di bianco macchiato di rosso e connotata dalla presenza di una lettiga, su cui giace il pupazzo di rami e fascine, corde tese e bende bianche prendono posto il regista, spettatore privilegiato, e Mariangela Gualtieri, autrice del testo (sistemata su una sorta di podio già presente in Giuramenti del 2017). Collegano simbolicamente i due mondi imponenti cannoni sonori, puntati verso un palcoscenico rivestito di nero, un luogo oscuro, rischiarato da poche lampadine, allestito con una scala esile dove è possibile scendere e salire, un planetario e un tamburo dove poggia una pelle di pecora, irta di aculei. Ancora una volta, il modo in cui Ronconi progetta lo spazio infrange i confini fra scena e platea, che diventano uno spazio unitario, anche se la separazione è evidentemente data dalle diverse altezze e colorazioni: domina il buio, quello “di una veglia funebre”, quello del teatro, dell’attore, del burattino condannato a crescere e diventare uomo (condividendo alcuni tratti con il Pinocchio di Carmelo Bene, 1962).
Oltre a Pinocchio la scena è abitata da Chiara Bersani, la Fata agita e parlata dalla poetessa Mariangela Gualtieri. Parimenti a Pinocchio-Calderoni, anche questa è una presenza doppia, seppur diversamente declinata: oltre a esser se stessa, performer in scena, ricopre il ruolo di Fata che, seppur attribuitole dallo spettacolo, le rimane esterno, in quanto la sua voce non proviene dal suo corpo. È infatti Mariangela Gualtieri, autrice del testo, a veicolare ciò che dice: Bersani-fata muove il labiale senza proferire. Si tratta di un procedimento drammaturgico che Ronconi motiva a partire dal fatto che la voce della Fata turchina dovrebbe imporsi in sé, evitando di impastarsi con gli umori delle individuali soggettività, perché deve lasciar passare l’alterità, essendo una voce magica che richiede un ascolto devoto. Di qui la deformazione fonetica con cui essa è stata plasmata, che le fa assumere un’intonazione infantile che tende al grottesco, secondo una cifra ricorrente nell’estetica del Teatro Valdoca.
Chiara Bersani esegue il compito di colei che dice ricevendo il suo dire, mentre, con le energie lasciate libere dal non dover aderire al testo, intrattiene con lo spettatore e con l’intera scena apparecchiata un rapporto di solidarietà e di intesa. In questo mare nero e bianco, il dispositivo narrativo è dato dal suono nelle sue stratificazioni di diversa natura: il suono elettronico, “il suono dell’esistenza” di Attila Faravelli e di Ilaria Lemmo, il canto leggero e impalpabile di Elena Griggio e Silvia Curreli, il suono d’ambiente (passi che annunciano e accompagnano l’entrata a lunghe falcate di Silvia-Pinocchio, latrati di cani, suoni di una risacca minacciosa, tuoni che non esplodono, grugniti di maiali). Ad essi si aggiunge il suono live e performativo degli assoli di Enrico Malatesta (timpano, campane tibetane, legni, un piatto).
Cosa consegna la fatina nella sua lingua masticata, strascicata, infantile? Prima di tutto l’esortazione a lasciarsi governare dalla lentezza. E poi l’amore: se manca, “viene bruttissimo dentro”. L’amore è essere accolto e accogliere l’altro: “Diventa me”, “Dopo diventa uno con tutto quello che c’è”, “Un unico suono”. Sono parole che rivolte a Pinocchio indicano una via evidente: “Scappa da questa norma che è tutta / saccente, infelice, svuotata di primigenie forze / […] Ebbrezza tu hai. Tu hai contentezza di fuga solitaria. Balla. Balla. Lascia perdere l’abbecedario […]”, perché tutto quello che gli umani hanno realizzato, edificato, comprese l’arte e la scienza, non rende la specie umana migliore. Una fuga da questi valori sui cui passi di danza giungono le ultime parole che Mariangela Gualtieri ascrive alla Fata Turchina, a congedo dell’intero spettacolo: “Adesso che la casa sta bruciando / è meglio non essere di legno / adesso che la casa sta bruciando / guardiamo lo spettacolo del fuoco / […] Spalanca gli occhi su questo splendore / il gran finale durerà più poco”.
ENIGMA. Requiem per Pinocchio pone effettivamente un quesito: che rapporto c’è fra Pinocchio e il fuoco? Se il fuoco, come Pinocchio, è figura ricorrente negli spettacoli del Teatro Valdoca (ricordiamo Imparare è anche bruciare, 2003; Fuoco centrale, 1995), qui Ronconi, esaltando l’ebbrezza del fuoco e con esso il canto, le acrobazie di un corpo burattino indocile e scavezzacollo, indica un tutto in cui le specie viventi non sono schiacciate dalla potenza dell’umano. Pinocchio, il burattino di legno, ci porta a riflettere su cosa sia umano.
Ho ripreso una lettura di molti anni addietro, La psicoanalisi del Fuoco di Gaston Bachelard, e in questo libro affascinante ho trovato una chiave di lettura dello spettacolo: “Il problema della conoscenza personale del fuoco è il problema della “furba disobbedienza” […]. Il bambino è come un piccolo Prometeo, ruba i fiammiferi, corre quindi nei campi e, per la strada, in un angolo, aiutato dai suoi compagni, fonda il focolare della ‘scuola marinata’” (Bachelard 1973, p. 135). Per lo studioso nel fuoco si ritrovano sia quello che chiama il complesso di Prometeo (la tendenza che ci spinge a sapere più dei nostri maestri), sia il complesso di Empedocle (l’amore, il ritmo, il canto). Fuoco è immaginazione, amore, morte e fuoco sono uniti, fuoco è scomparire, non lasciare traccia.
E allora l’enigma o il quesito che ci pone lo spettacolo, cosa sia l’umano, cosa vorremmo che fosse l’umano, non contrappone il burattino adolescente all’umano, l’ebbrezza all’intellettualità (ovvero l’abecedario), il desiderio di impadronirsi del seme del fuoco di Prometeo al piacere. Invita piuttosto a non porre la volontà di intellettualità alle dipendenze del principio di utilità (ivi, p. 136). C’è bisogno di tempo e pazienza, scrive Bachelard, per infiammare il pestello e produrre la fiamma. È un lavoro ritmico, durante il quale si impara a cantare; mentre i legni battono, la voce canta e “tutto converge nella stessa armonia” (ivi, p. 152). Il seme del fuoco che si produce per attrito è un fuoco di gioia, protegge uomini e bestie dalle malattie, dà forza e salute. E allora Pinocchio è un inno al fuoco di gioia, allo splendore che è destinato ad estinguersi.
Riferimenti bibliografici
G. Bachelard, Psicoanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1973.
M. Marino, Pinocchio, o il fuoco dell’adolescenza, in “Doppiozero”, maggio 2021.
ENIGMA. Requiem per Pinocchio. Testo: Mariangela Gualtieri; regia, allestimento e luci: Cesare Ronconi; interpreti: Chiara Bersani, Silvia Calderoni, Mariangela Gualtieri, Matteo Ramponi; musica: Attila Faravelli, Ilaria Lemmo, Enrico Malatesta; canto: Silvia Curreli, Elena Griggio; costumi: Cristiana Curreli/ReeDo Lab; luci: Stefano Cortesi; suono: Andrea Zanella, Michele Bertoni.
*L’immagine di copertina e quelle presenti all’interno dell’articolo sono fotografie di scena di Simona Diacci Trinity e Teatro Valdoca.