La terza stagione di Emily in Paris è riuscita a catalizzare un numero elevato di spettatori, nonostante sia basata su una mera forma di ritorno dell’identico (sia formale che diegetico), che aggiunge poco o nulla ad una narrazione già di per sé scarna, volutamente incentrata su un tono da comedy senza impegno. Tuttavia, nel terzo atto delle vicende parigine della Cooper la costruzione seriale matura un’identità ancora più specifica, esplicitando con maggior forza gli intenti di Darren Star attraverso una chiave performativa a-cinematografica che si estende lungo tre macro-traiettorie – la città di Parigi, la moda e il cibo –, tenute insieme non tanto dalla flebile diegesi, ma da un unico sguardo-Social che fa apparire tutti gli elementi del profilmico come instagrammabili.

Nella serie infatti il dispositivo-smartphone viene traslato sullo schermo attraverso un’ostentazione stessa del medium (la cover di Emily è ormai acquistabile dovunque), l’insistente riproposizione di segmenti di chat (a volte insignificanti sul piano diegetico) e la trasformazione di fermo-immagini in post su Instagram – tendenza che viene meno nella terza stagione, in cui il social network non è più solo un espediente mediale della messa in scena, ma uno sguardo più profondo che coinvolge tutta la narrazione.

La ricostruzione di Parigi attraverso la macchina da presa è una costante del mondo cinematografico, dai fasti della Nouvelle Vague fino alle sperimentazioni degli anni Duemila. Nella serie Netflix tuttavia la città non ha mai la funzione di spazio diegetico, ma agisce come dispositivo ritmico di carattere narrativo e visivo, dal momento che ritma una serie di giornate lavorative tutte uguali, dove, anche se cambia l’azienda (da Savoir a Grateau), in realtà non cambia nulla (neanche la sede di Place de Valois).

A livello ritmico concorrono i tanti time-lapse sullo skyline parigino, in cui svettano i geo-simboli urbani (Torre Eiffel e Arc de Triomphe su tutti) che segnano il passaggio giorno-notte-giorno; a livello visivo concorre invece sia un’espansione sempre più orizzontale delle location selezionate sia la messa in mostra dei loro aspetti più strettamente fascinosi, come i colori sgargianti. Diventa così chiaro come lo showrunner intenda le varie stagioni come un unico tessuto macro-testuale fluido, pensato per offrire un unico sguardo d’insieme sulla capitale attraverso specifici zoom su luoghi battuti (dall’Opera Garnier a Montmartre, fino agli interni del Musée d’Orsay) e meno battuti (dalla Maison Rose della prima stagione al muro del Je t’aime dell’ultima), che dialogano a livello intertestuale tra di loro sollecitandosi i caratteri visivi.

Questi ultimi sono rimarcati da una fotografia patinata che dialoga con gli outfit dei protagonisti: viene così offerto sullo schermo un grande affresco seriale colorato, che evita volutamente i lati più bui e grigi della città, con l’intento di una semplice (e per niente articolata) promozione territoriale che agisce sull’immaginario degli spettatori, spingendoli a ricercare quei luoghi e quelle inquadrature e a ricrearle performativamente (magari sui social), dal momento che le location non entrano mai in relazione profonda con i personaggi, ma appaiono solo come sfondo scenografico delle loro azioni, sia quotidiane che straordinarie.

La moda è il principale universo intorno a cui è costruita tutta la serie, in linea con quella tendenza mediatizzante del fashion che coinvolge sempre più la serialità, e che intende la moda come medium per via della relazione narrativa che gli abiti intessono con i corpi che li indossano, e del dialogo che i corpi stessi intessono a loro volta con le strade e i luoghi agiti dai corpi. I boulevards parigini e gli scorci della capitale francese diventano così un proscenio naturale per le sfilate non volute di Lily Collins (e del resto del cast) con i suoi outfit (che iniziano a farsi più francesi, in linea con la scelta di restare definitivamente in Europa, abbandonando, dopo doppi giochi e tradimenti, la mentore di Chicago), di cui viene rimarcato lo statuto duplice dello sguardo attraverso l’ostentata moltiplicazione schermica garantita dal suo smartphone, grazie al quale ogni passo sembra essere strutturato sia per osservare la città (con lo stereotipato stupore dello sguardo americano), che per essere osservata dagli altri passanti, nonché dai follower.

L’azione del camminare, grazie alla messa in scena e al dialogo si trasforma in una performance: pur non mancando performance vere e proprie come la sfilata al Trocadero o i baci sulle mongolfiere in volo sulle campagne francesi (in uno degli excursus extraurbani disseminati in ogni stagione), risultano più performativamente efficaci tutte le azioni quotidiane, come la passeggiata di Gabriel e Camille nel corridoio principale del Musée d’Orsay, dove non viene fatto cenno al valore artistico o turistico del luogo, ma lo sguardo della macchina da presa insiste sull’orizzontalità direzionale dello spazio, rappresentato come una passerella su cui compiere una sfilata, con tanto di retrogusto romantico e soggettivo. Tutte le azioni che prevedono un movimento di un corpo diventano allora sfilate performative, che si stagliano sulle più svariate scenografie parigine, sia urbane che interne.

L’ultima traiettoria è rappresentata dal cibo che, in linea con la ridondanza che riveste nel sistema mediale da almeno due decenni, nella terza stagione di Emily in Paris ha un ruolo centrale più che mai, condizionando a livello narrativo una delle poche storyline che cerca di far proseguire, pur con fatica, il running plot (lo chef Gabriel che vuole a tutti costi una stella Michelin), e rappresentando un altro nodo concettuale della stagione attraverso la messa in scena frequente di momenti di convivialità al tavolo in ristoranti e locali, rappresentati come entità socio-testuali e culturali, nonché come ulteriori stereotipi della Ville Lumiere.

La serie offre una visione semiotico-performativa ed esperienziale del cibo, senza mai entrare nei discorsi che lo riguardano (tutti i piatti preparati dallo chef vengono soltanto descritti come assiomi indimostrabili, e nello stesso modo sono fruiti dai consumatori come qualcosa di unico ed eccezionale, senza il supporto di alcuna argomentazione), ma evocandone sia il carattere visivo (ancora una volta “instagrammabile”), attraverso istantanee e zoom su piatti più o meno ricercati che devono cercare di incantare i clienti che il carattere di medium social(e), poiché grazie al consumo del cibo viene permesso ai personaggi di entrare in sintonia con l’altro, e condividere se stessi.

In questa stagione il cibo è infatti il mezzo che permette di svelare le identità e gli intenti degli interlocutori: se nella prima le relazioni intorno al tavolo erano circoscritte al gossip o a cenette romantiche, e nella seconda riguardavano più che altro pranzi di lavoro, qui vengono messi in gioco elementi relazionali più complessi, come le discrasie emotive tra Emily e Alfie, oppure i tentativi di allargare il proprio parco-clienti di Sylvie, azione che, nella diegesi, non si limita ad intenti strettamente lavorativi, ma rappresenta per la manager una messa alla prova delle sue capacità comunicative.

La serie invita gli spettatori a sedersi ad un tavolo (ovviamente francese), e ad approfittare dell’occasione per mettersi alla prova con l’altro. A questo intento performativo corrisponde anche una delle sequenze più iconiche di questa stagione: nel primo episodio Emily è invitata a pranzo da Gabriel al McDonald’s degli Champs-Élysées, rappresentato sia con gli stilemi patinati e visuali di cui sopra, che come esperienza culinaria tout court, ma francese.

Nella sequenza si assiste ad una decostruzione in chiave francesizzante del brand americano: nessun hamburger e nessuna “M”, ma soltanto una carrellata laterale sui macaron, che funge da accesso al pranzo tra i due. Lo spettatore viene così invitato a prendere parte all’esperienza di gusto non solo grazie alla messa in scena della sequenza, ma ad una partnership con l’azienda americana: a Parigi infatti, dal dicembre 2022, è disponibile nuovamente la McBaguette, uno dei prodotti dell’offerta glocalizzata di McDonald’s, quest’anno inserita in uno speciale Menu Emily in Paris, che invita il consumatore a fruire di quel petit plaisir evocato, con intento programmatico, nel primo episodio della stagione. Magari facendo un bel post su Instagram.

C’è poco cinema in tutte e tre le stagioni del nuovo prodotto targato Darren Star. Eppure nella terza la serie rafforza la sua identità di prodotto senza alcuna pretesa grazie alla messa in scena di uno sguardo-Social in cui tutto si fa Instagram: le immagini instagrammabili e performative invitano così lo spettatore non solo a fruire della comedy, ma soprattutto a prendere parte alle esperienze vissute dai personaggi (e poi a condividerle). Un po’ come fa il suo pubblico nella vita di tutti i giorni.

Riferimenti bibliografici
L. Bandirali, Medium loci. Spazio, ambiente e paesaggio nella narrazione audiovisiva, Pellegrini, Cosenza 2022.
A. D’Aiola – M. Pedroni, a cura di, I media e la moda. Dal cinema ai social network, Carocci, Roma 2022.
G. Marrone, Semiotica del gusto: linguaggi della cucina, del cibo, della tavola, Mimesis, Milano-Udine 2016.
S. Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo: eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano-Udine 2014.

Emily in Paris; ideatore: Darren Star; interpreti: Lily Collins, Philippine Leroy-Beaulieu, Ashley Park, Lucas Bravo, Camille Razat, Samuel Arnold, Bruno Gouery, William Abadie, Lucien Laviscount; produzione: Darren Star Productions, Jax Media, MTV Studios; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2020-in produzione.

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