Mentre scrivo queste righe le elezioni americane sia avviano verso il più lungo e peggiore dei finali possibili. Il rifiuto dei repubblicani di riconoscere la legittimità dei risultati elettorali ufficiali e il loro esplicito riferimento a presunti brogli ci consegnano l’immagine di un’America che sembra oramai divisa stabilmente in due campi politicamente opposti e mortalmente nemici. E, se è vero che, come più di tutti ha chiarito Carl Schmitt, la politica è prima di tutto individuazione di un nemico e sviluppo di una relazione di inimicizia (Schmitt 1972), è altrettanto vero che la magia della democrazia rappresentativa moderna è sempre stata quella di riuscire ad operare quella trasformazione alchemica che trasmuta i bullets in ballots.

Gli scontri che proprio in questo momento si stanno avendo in Arizona ci dicono però che questa volta il circolo sembra essersi chiuso in un cortocircuito che ha conseguenze potenzialmente devastanti. I proiettili, reali e metaforici, si sono trasformati in schede elettorali, ma adesso stanno ritornando ad essere proiettili reali. È l’inevitabile conclusione di un’elezione che, a ben vedere, ha ripercorso l’intera epopea statunitense utilizzando quasi tutti i suoi miti fondativi più potenti, ma in una modalità che ne ha stravolto completamente il significato: quasi che il rancore, oggi così diffuso in America, abbia voluto negare e sfregiare proprio i suoi miti più unificanti.

Non è quindi un caso che le elezioni, dal punto di vista tecnico, si concluderanno con lo spoglio dei voti che stanno ancora arrivando via posta. La posta è forse il mito unificante più longevo della storia degli Stati Uniti. È attraverso l’istituzione del servizio dei leggendari Pony Express che un insieme di comunità di coloni, spesso divisi per tradizioni, lingue e credo religiosi, ha iniziato a diventare una nazione. L’istituzione del servizio postale può essere a ben diritto considerata la pietra fondativa dell’intera amministrazione americana, e non è un caso che questo mito unificante sia stato riproposto in maniera estatica innumerevoli volte nella storia del cinema americano. L’alone di “reverenza” che fino ad oggi ha circondato il servizio postale americano è quello che gli ha permesso, fino ad oggi, di essere considerato un mezzo adatto per esprimere un elemento considerato sacro in democrazia come è il voto politico.

Quando Donald Trump, il Presidente degli Stati Uniti, mette in dubbio la legittimità dei voti espressi per posta non compie solo un’azione estremamente partigiana e scorretta (come è noto sono i democratici che sono maggiormente affezionati al voto postale con una percentuale che rasenta l’80%), ma mette in atto un vero e proprio atto di sfiguramento nei confronti del mito nazionale americano. La posta che aveva unito i coloni, facendo sentire loro per la prima volta l’esistenza di una possibile nazione, ora divide la nazione che aveva essa stessa generato, diventando strumento e luogo del tradimento più abietto, la sovversione della volontà popolare. Si compie così un percorso di totale ribaltamento simbolico e politico, un full circle che riporta l’America ai tempi della frontiera selvaggia. Solo che questa volta la frontiera non è più un territorio da conquistare e il nemico non è più “altro da noi”; il nemico, odiato al punto da poter ricorrere alla violenza fisica, è dentro la nazione americana, sempre più frantumata dalla mille disuguaglianze che l’attraversano, la segmentano e la agitano in maniera crescente (Levin 2017).

A ben vedere, però, il servizio postale non è stato l’unico mito collettivo, l’unica memoria positiva condivisa e non conflittuale, ad uscire completamente stravolto dalla sorprendente sceneggiatura distopica che ha guidato queste elezioni americane. Basti pensare, ad esempio, a ciò che ha significato la trasformazione dei comizi di Joe Biden in drive in. La guarigione lampo di Donald Trump dal Covid19, e il suo prepotente ritorno fisico sulla scena politica, hanno costretto il candidato democratico a cercare di conciliare la necessità di organizzare comizi politici non virtuali con la posizione “securitaria” che Biden aveva assunto fin dall’inizio della campagna elettorale in tema di lotta alla pandemia. Il risultato sono stati dei curiosi (e tristissimi) comizi-drive in dai quali il mito dell’automobile e quello del drive in si sono trasformati nei loro opposti.

Nell’immaginario collettivo mondiale il drive in è uno dei luoghi simbolici per eccellenza dove la giovane nazione americana ha reso più espliciti i desideri di benessere e libertà. L’acquisto di una o più automobili da parte di moltissime famiglie americane negli anni ’50 rimane infatti uno degli emblemi più potenti del benessere diffuso che il capitalismo è in grado di produrre. L’automobile diventa in quel decennio, insieme alla casa, il principale strumento per rendere visibile a tutti la propria capacità di affermarsi nel mondo, di adempiere agli imperativi che la necessità di ascesi intramondana, tipica delle sette protestanti (Weber 1970), impone all’individuo se vuole raggiungere la salvezza eterna. Allo stesso tempo l’automobile è il mezzo indispensabile per scoprire il proprio paese, per girovagare senza sosta in quegli spazi sterminati che sono gli Stati Uniti d’America alla ricerca di se stessi e di un luogo da poter chiamare “casa”; un luogo dove l’individuo e la nazione possano felicemente incontrarsi attraverso la comunità locale “trovata” e il benessere materiale prodotto. Infine, proprio nei drive in, l’automobile diventa all’occorrenza alcova, individuale e collettiva allo stesso tempo, entro la quale la vitalità di una nazione unita e fiduciosa nel progresso (la vera mitica “Great America” tanto cara all’immaginario trumpiano) si esplicita anche attraverso una ricerca di libertà sessuale che troverà il suo apogeo nel decennio successivo a San Francisco e un po’ in tutta l’America nella “Summer of Love” del 1969. Questo il mito del drive in, celebrato anch’esso, non a caso, infinite volte nel cinema statunitense – da Happy Days (1974) ad American Graffiti (1973), solo per citare gli esempi forse più conosciuti.

Ebbene, tutto questo è capovolto nell’opposto di se stesso nei comizi drive in di Biden. L’automobile non è l’estensione della casa, da rendere eventualmente collettiva e comunque luogo di incontro e strumento di avventura, ma è invece l’estensione integrale e meccanica della mascherina anti Covid19. In quei comizi l’auto ci separa dagli altri individui perché potenziali “untori” e il suono dei clacson, cioè l’emissione di un tipico segnale di pericolo, non unisce i presenti in un momento di gioiosa effervescenza collettiva (Alberoni 1977) ma li unifica in un grido di paura e di richiesta di salvezza dalla pestilenza. Il drive in di Biden non è espressione di un’America gioiosa che guarda al futuro con fiducia ma, al contrario, tramutandosi nel suo opposto e nella sua negazione, è l’espressione di una società arrabbiata che si sente debole e angosciata, che cerca conforto e riparo in un’America e da un’America che a molti sembra non essere più “blessed by God”.

Diversi altri esempi potrebbero essere fatti ma credo che sia meglio concludere pensando al futuro prossimo. I repubblicani hanno annunciato il ricorso davanti alla Corte Suprema. Se questa istituzione verrà coinvolta dalla lotta senza quartiere che contraddistingue la politica fortemente polarizzata dell’America di oggi – e se ne uscirà anch’essa trasfigurata in un’istituzione divisiva e partigiana – sapremo infatti se “il circolo è completo”, cioè se gli elementi una volta unificanti e indiscussi oggi si sono trasformati nei loro opposti e ci consegnano una nazione a rischio di disgregazione.

Riferimenti bibliografici
F. Alberoni, Movimento e istituzioni, il Mulino, Bologna 1977.
Y. Levin, The Fractured Republic, Basic Books, New York 2017.
C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972.
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1970.

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