Se è vero che molto si è detto sulla fotografia come atto pragmatico (Dubois 1996), la fotografia di scena cinematografica sembra mancare ancora oggi di un’esauriente indagine teorica. Valutata un po’ meno della fotografia d’arte e un po’ più del fotoreportage, la pratica della still photography, muovendosi in una zona liminale tra esigenza comunicativa commerciale e autonoma pulsione creativa, ha invece sempre restituito non solo una narrazione del set ma anche e soprattutto un’inedita traduzione del film. Dagli indimenticabili Angelo Novi e Vittorio Mazza fino agli internazionali d’ultima generazione Stefania Rosini e Antonello&Montesi, per citare solo alcuni nomi, l’Italia ha storicamente offerto una ricca scuola di fotografi di scena di cui Gianni Fiorito è senza dubbio un illustre esponente. Membro dell’Associazione Nazionale Autori della Fotografia di Scena Cinematografica, durante la sua carriera ultraventennale è stato presente su sette dei nove set di Paolo Sorrentino e oggi la mostra “È stata la mano di Dio – Immagini dal set”, curata da Maria Savarese e ospitata dal 14 aprile al 5 settembre 2022 dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, espone 51 suoi scatti raccolti durante la lavorazione dell’ultimo film del regista napoletano.
Uno spazio espositivo non è mai neutro. Soprattutto se si tratta di un luogo altamente storico e simbolico come il MANN, con tutta la sua storia e con le storie, grandi e piccole, che contiene in sé. Già solo per questa ragione, ospitare la mostra delle fotografie di scena e del backstage scattate da Gianni Fiorito è un’idea vincente: gli scatti del fotografo hanno infatti la capacità di mettere in prospettiva l’operazione già memoriale e nostalgica di Sorrentino, e in uno spazio come la Sala del Toro Farnese l’effetto di rifrazione si moltiplica. L’allestimento (diretto dallo stesso Fiorito insieme alla curatrice) costruisce, infatti, un dialogo tra geometrie e volumi, tra ombre e luci, e, come ricorda Paolo Giulierini nel catalogo della mostra, fa risuonare i sentimenti più profondi e immediati degli esseri umani di epoche diverse, come amore, dolore, malinconia. Ed è da questo dialogo, non solo di temi e sentimenti, che nasce l’attraversamento qui proposto di un itinerario iconografico che allarga le maglie della narrazione filmica lasciando intravedere nuovi scorci di memoria biografica e identità cittadina. Le foto, infatti, montate in sette sezioni (San Gennaro e ‘o munaciello, Passione, Napoli anni ’80, La ricerca della felicità, Famiglia, ‘O Cinema, Perseveranza), compongono in un tempo, sotto lo sguardo del fotografo, il museo sentimentale di Sorrentino e il panorama dell’immaginario urbano.
La porosa Napoli, di cui il film restituisce complessi percorsi identitari, tellurici e marini insieme, poggia le sue fondamenta su origini mitiche e su precise fasi storiche riattivate, entrambe, dal modo in cui le fotografie di scena – che ci riportano agli anni ottanta – fanno cortocircuito con le immagini contemporanee del set. Così, in ogni sala, grazie alla compresenza di foto di scena e foto di backstage, la ricostruzione storica d’ambiente, tra oggetti e costumi, convive con l’estrema contemporaneità di uno spazio urbano mutato e di location in cui regista, attori e maestranze in pausa, macchinari di ogni tipo appartengono all’oggi.
Non a caso il percorso si apre con una sorta di atto illusionistico, di evocazione di due presenze soprannaturali e immaginifiche nella sezione San Gennaro e ‘o munaciello, e va detto che la seconda è spettrale e salvifica insieme. Nella prima sala – con al centro il busto dell’imperatore Antonino Pio, noto, come dice l’appellativo, per la sua tolleranza verso il “sacro e il profano” – è esposta l’icastica fotografia proveniente direttamente dal profilmico del sontuoso lampadario colato a picco sul pavimento distrutto della sala di Villa del Cardinale a Torre del Greco, set di una delle sequenze di apertura del film. Dal volo d’uccello sul mare del golfo, si giunge al corpo della sirena-Luisa Ranieri, che ci conduce al cospetto di quella che appare come una possibile allegoria di Napoli e delle sue tante ricchezze e bellezze, che non trovano mai una base su cui poter solidamente poggiare: il lampadario echeggiante il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin (il rimando è ancor più evidente se si ritorna alla rilettura fatta da Ai Wei Wei nella sua Fontana di luce), il più grande progetto costruttivista, mai realizzato nella realtà come ogni perfetta utopia.
Questa immagine, anche in relazione al busto antico che, di suo, ci ri-guarda, crea un effetto ulteriormente straniante, di sospensione temporale, come sottolinea Maria Savarese, curatrice della mostra. Le altre tre fotografie, in cui il limite tra realtà e finzione si fa sottile e si palesa insieme, ritraggono Enzo Decaro che posa per la macchina fotografica nei panni dell’oscuro e potente personaggio che interpreta nel film; Decaro e Luisa Ranieri, in abiti di scena, che osservano la messa a punto della ripresa tecnica, con tanto di tecnici, carrello, macchina da presa e microfono visibili; Paolo Sorrentino che guarda i suoi appunti, illuminando il foglio con la luce emessa dal lampadario finito rovinosamente sul pavimento ma le cui luci sono tutte funzionanti. Questa prima sala consente un ingresso immediato nella particolare dimensione della fotografia di scena e di set e sembra davvero rimettere in questione la sostanza dell’immagine fotografica, la sua ontologia (Bazin 1958), traghettando il visitatore dal cinematografo al cinema (Morin 1956). In più, l’ultima sala dedicata a ‘O cinema, con i suoi scatti che offrono allo sguardo (in maniera fin troppo di didascalica) il dispositivo scenico, rimanda, circolarmente, a questo inizio.
Se da un lato i tuffi nella Napoli anni ottanta, città-corpo in costante (e)mozione (Bruno 2002), dialogano con i quadri vulcanici di Stromboli, orientati a un anelito di felicità tutto calato nel paesaggio, dall’altro il ricordo dell’intima affezione domestica riverbera nella scenografia di Carmine Guarino, che con gli scatti di Fiorito esplode in tutta la sua aptica poesia delle piccole cose. La memoria, così, proposta in forma di (auto)biografia, riannoda i fili dell’insostenibile passione eccedente: quella calcistica, fatalisticamente salvifica, che rima con quella artistica. Nel primo caso, Passione, la fotografia con Sorrentino allo stadio che omaggia Maradona, sembra quasi associare entrambi al Lare Farnese, in qualità di napoletani genius populi; nel secondo, la Napoli anni ’80, ricca di potenzialità e sperimentazione teatrale e cinematografica, dalla Smorfia e Massimo Troisi (e qui la presenza di Decaro in apertura di mostra assume la valenza di una ulteriore potenziale mise en abyme), mette in scena, risuonando con la traccia nascosta nella scultura di Achille e Troilo, i conflitti generazionali e il complesso edipico che nutre il rapporto di Fabietto con il cinema, attraverso la figura paterna, la relazione con la zia materna e il magistero negato di Antonio Capuano.
Eppure, sono forse le due sale centrali, in un crescendo che ritroviamo anche nel film, a generare i percorsi più suggestivi di riverbero tra antico e presente. Nelle sale dedicate a La ricerca della felicità e La famiglia, trovano infatti spazio attraversamenti tematici che restituiscono il lavoro del soggetto su se stesso, la sua definizione in relazione al mondo e ad una comunità, più o meno estesa. La felicità sta nella conoscenza, come la dea Minerva sembra ricordare. È qui che, ai margini della sceneggiatura, Fiorito scatta più che altrove, accumulando le immagini che popolano un inedito album di famiglia. La sezione più nutrita della mostra (ben 22 scatti) si dispiega come una teoria bizantina degli affetti. I corpi divistici degli attori e delle attrici si sovrappongo e si perdono nella schiera dei fantasmi biografici riconvocati dal regista. Le foto di scena, le foto-ritratto, così, sembrano assumere la postura di foto-souvenir, oscillanti da statuto artistico a documentario in una incerta stratificazione semantica e visuale (la foto che noi guardiamo cosa ritrae in verità? La famiglia-troupe in viaggio? La famiglia finzionale? O star del cinema in posa?). E, in fin dei conti, ciò che il Toro farnese, campeggiante al centro di questa sala, ritrae è una complessa vicenda familiare, fatta di amore e odio, in cui i destini femminili, che pure il film racconta tra madre, zia e figure varie, sono schiacciati da un mondo gestito da uomini, tra dèi e mortali.
Perseveranza è infine il piano a due che l’allestimento riserva a Scotti e Sorrentino. Due volti asimmetrici, uno in scena, l’altro al video assist. Una coalescenza di attuale e virtuale, tempi indiscernibili, in cui «il presente è l’immagine attuale e il proprio passato contemporaneo» (Deleuze 1985, p.106). Due scatti reciproci, una stessa direzione sdoppiata, tra uno slancio verso l’avvenire e una ricaduta all’indietro nel passato. In mezzo, nello spazio bianco del fuori-campo, dove le due dimensioni si rincorrono e si scambiano di posto, il cristallo di tempo inquadrato da Gianni Fiorito un attimo prima dell’oblio.
Riferimentii bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973.
G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Johan & Levi, Cremona 2015.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
P. Dubois, L’atto fotografico, Quattro Venti, Urbino 1996.
E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Raffaello Cortina, Milano 2016.
È stata la mano di Dio – Immagini dal set, a cura di Maria Savarese e Gianni Fiorito, MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli, 13 aprile – 5 settembre 2022.