Tornando a casa, stanca, mescolo nella mente le immagini della moviola e confondo quella storia con i fatti miei.
Preferisco la precarietà di un film
alla precarietà della vita reale.
La mia vita, però, non la so raccontare, perché appena la guardo per farla diventare parole, si nasconde.
Monica Vitti
Esile dalla voce rauca, delicata ma non smunta, sensuale e al tempo stesso algida, ottimista e problematica, aristocratica e popolana, vivace anche se mai davvero spensierata, provvista di una lievissima, permanente inquietudine negli occhi che chi la ama non può non conoscere altrettanto bene del suo sorriso. Monica Vitti è matura e fragile, divertente e malinconica, tenera e spietata, coraggiosa e perduta. Toglie il fiato e fa ridere, è la ragazza con la pistola e la regina dell’alienazione, la bionda fatale e l’amica con la battuta pronta. Se è indubbiamente un’icona del cinema italiano, delle fissità delle icone ha poco e niente: ha così tanti volti che ognuno si sceglie il suo, la ricorda per un ruolo o per un motivo differente (Marangoni 2020, p. 14).
Quando, nella nota introduttiva del libro, Eleonora Marangoni si sofferma sulla strategia adottata per realizzare il suo ritratto della diva moderna per eccellenza, Monica Vitti, utilizza l’aggettivo “corale”, spiegando come di fatto non abbia mai potuto concepire un’alternativa migliore: quarantasette racconti, uno per ogni personaggio interpretato da Vitti al cinema, che vanno a innervare lo spettro timbrico di un’unica voce, multipla di per sé. Ogni racconto si sviluppa a partire da una suggestione, maturata dall’autrice in seguito alle visioni dei film (una frase, un gesto, un atteggiamento, un dettaglio dell’abbigliamento) e spalanca un variopinto ventaglio di mondi possibili, in cui donne come Valentina Gherardini, Giuliana, Assunta Patanè, Teresa la ladra, Modesty Blaise, Mimì Bluette, Fata Sabina, Dea Dani, continuano a vivere – o a pensare o a essere osservate da sguardi terzi – oltre i confini conosciuti delle loro esistenze cinematografiche: «Diversamente dai personaggi dei libri, che mi accompagnavano per giorni interi, con queste donne trascorrevo solo un breve momento, una o due ore tutt’al più. […] Mi sarebbe piaciuto saperne di più della loro storia, ascoltarle, chiedere loro consiglio. Avrei voluto, semplicemente, passare con loro un altro po’ di tempo» (ivi, p. 17). Lo sforzo creativo compiuto da Marangoni si spinge al di là, producendo ulteriori innesti nella finzione riconducibili direttamente al vissuto di Vitti, (s)oggetto in passato di numerose biografie e autobiografie.
Ecco allora che diventa impossibile districare l’impasto polifonico su cui veleggia fieramente la scrittura, che scardina il potere memoriale della divagrafia originaria e, allo stesso tempo, preserva la multidimensionalità della sembianza divistica. Ad esempio, rievocando la clamorosa Claudia di L’avventura (1960) nel racconto La poltroncina – in cui si fa riferimento all’episodio reale, legato a una gita in barca a Ventotene, che ispirò Antonioni per il primo capitolo della tetralogia –, l’autrice si sofferma sulla relazione particolare tra la donna e una poltrona del salotto di casa sua, accomunate dalla medesima “indeterminatezza”, «qualcosa di delicato e al tempo stesso profondo» (ivi, p. 56). Si tratta di un aneddoto ripreso da Sette sottane (1993), il primo testo autobiografico redatto, a suo dire in via del tutto involontaria, da Vitti stessa, in cui l’attrice esprime un insopprimibile perpetuo bisogno di essere altro e di trasformarsi, immaginando di fondersi con una poltroncina di stoffa e di legno:
Ecco, ero seduta sulla mia poltroncina. Era successo qualcosa di grave, non ne potevo più. Ho smesso di parlare, di bere, di mangiare. Ho interrotto tutto con un taglio netto. Mi sono seduta, ho messo le mani sui braccioli e sono diventata tutt’uno con lei. Dopo poco, mi sono sentita proprio una poltroncina. Le mie braccia si stavano incorporando con i braccioli. Le mie gambe con le sue gambe. Forse anche il mio vestito e i miei capelli si erano mescolati. “Lei”, la poltroncina, avrà avuto un battito al cuore, solo per poco, nel sentirsi viva e anch’io nel sentirmi morta (Vitti 1993, pp. 90-91).
La Claudia di La poltroncina non corrisponde in toto alla Claudia del film di Antonioni, così come non è completamente sovrapponibile alla sua interprete Monica, eppure rivela (nella misura in cui continua a nascondere) qualcosa di entrambe. In questo raffinatissimo gioco di riflessi – che riorganizza armonicamente i corpi, i tempi e gli spazi, a cavallo tra diversi ordini di finzione e verità storica – la Marangoni narratrice si avventura nel territorio “semprevergine” dell’inespresso, laddove vige il divieto perentorio di sporgersi dentro, come recita un titolo regalato a Vitti da Buñuel in occasione del loro primo incontro a Parigi. Un tentativo il suo che risulterebbe doppiamente vincente per determinati personaggi, se permettesse di colmare certi vuoti divenuti col tempo leggendari.
Su tutti, la Vittoria de L’eclisse (1962). Che fine ha fatto? È mai sopravvissuta all’apocalittico finale? L’autrice non si lascia scoraggiare dall’enormità della domanda e si mostra estremamente rispettosa nei riguardi dei dogmi antonioniani, scegliendo di corrispondergli anche formalmente e di fermarsi un attimo prima, all’indomani di uno dei tanti incontri amorosi vissuti dalla protagonista del film con Piero-Alain Delon (di certo non quello che siamo abituati a considerare come ultimo, ma un incontro qualunque in cui è Piero ad andare via e non Vittoria). Da quella piccola finestra spalancata sull’oscurità dei sui pensieri segreti, la ragazza passeggia come da copione lungo i viali dell’EUR e ci comunica che vorrebbe non abitare in un quartiere giovane quanto lei, cullando dolcemente un proposito più profondo di appartenenza alla città e alla vita:
Vorrei essere vecchia in un quartiere che non mi faccia pensare di continuo a tutto quello che potrei fare se non lo fossi, e che ricordi – a me e agli altri vecchi come me – che abbiamo vissuto, amato, sbagliato, dato tutto quello che avevamo o forse no, non abbiamo dato tutto, ma avremmo potuto, se solo avessimo voluto, con tutto il tempo che è passato e che non abbiamo saputo usare diversamente (Marangoni 2020, pp. 233-234).
Lo stesso vale per le creature femminili ritratte in Il cappotto verde e Cose di cui non scriverò, eleganti alter ego delle donne-Vitti rappresentate rispettivamente in Il deserto rosso (1964) e La notte (1961).
Eppure lo sconfinamento letterario più interessante proposto da Marangoni è, probabilmente, quello che porta verso la soglia dell’autoritratto, in cui assume rilievo dall’indistinto fondale policromo la voce tonante dell’autrice, posizionandosi tra l’attrice e il personaggio. Il racconto in questione è La verità, edificato sulla visione di Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa (Fondato, 1970). Marangoni confessa che l’aneddoto della recita scolastica di Natale organizzata dalla direttrice Carla – in cui tre bambine si esibiscono sulle note della canzone del film in body nero, calze a rete, giarrettiera e gonna di carta crespa, scatenando l’indignazione di alcuni genitori che convocano d’urgenza una riunione per scoprire la verità sull’affaire Ninì Tirabusciò – si riferisce alla sua infanzia e al periodo in cui sente parlare per la prima volta di Monica Vitti:
Il film Ninì Tirabusciò lo vidi molti anni dopo, quando ero ormai all’università. Soltanto allora capii la storia della mossa […] Ninì però mi è sempre rimasta nel cuore, lessi anche un libro sulla sua vita e mi sembrò che il suo personaggio assomigliasse molto alla direttrice Carla. Anche lei era una donna allegra, intelligente, libera e in fondo piuttosto sola. Dopo che ho finito le elementari, la direttrice non l’ho più incontrata, e oggi non so più niente di lei. Se per caso dovesse leggere queste righe, vorrei dirle che riguardo ancora le nostre vecchie foto e che non l’ho dimenticata (ivi, p. 186).
Di donna in donna. Di voce in voce. Da Ninì a Monica, passando per Carla, fino a Eleonora. In questo particolare frangente, l’io narrante sembra allinearsi in maniera più evidente a quello dell’autrice, pur restando nell’orbita di un’impalcatura squisitamente letteraria, ed esprimere una verità che paradossalmente ha molto a che fare col cinema e con quella particolare stratificazione di senso, tipicamente cinematografica, che vede collassare i ricordi legati alla visione di un film (all’esperienza che se n’è fatta) su quelli della propria vita. Verrebbe da chiedersi: può essere questo un modo sensato di parlare di cinema? E se, in realtà, non esistesse altro modo?
Riferimenti bibliografici
E. Marangoni, E siccome lei, Feltrinelli, Milano 2020.
M. Vitti, Sette sottane. Un’autobiografia involontaria, Sperling & Kupfer, Milano 1993.
Id., Il letto è una rosa, Mondadori, Milano 1995.
Eleonora Marangoni, E siccome lei, Feltrinelli, Milano 2020.