C’è una figura molto cara all’immaginario dei lettori di Kafka: è quella dell’uomo in fuga. Essa è perfettamente racchiusa in uno schizzo dello scrittore, le cui linee non si chiudono in una figura propriamente umana, ma rimangono aperte a suggerire il movimento sempre in fieri dell’attraversamento, della fuga perenne. Poniamo di riconoscere in questo bozzetto un ritratto del suo autore: da cosa scappa Kafka? E dove conduce la sua fuga? Nella libertà, nell’apertura spensierata dello schizzo o nella tana in cui finisce intrappolato l’animale di un suo noto racconto?

Due. La passione del legame in Kafka di Nadia Fusini, volume appena ritornato in una nuova edizione per Feltrinelli, si pone queste domande, offrendo una prospettiva molto originale: «La fuga dal legame è l’evento centrale dell’esistenza di Kafka: la ragione della sua scrittura» (2024, p. 133). Kafka fuggendo si scava la propria tana: questa tana è la sua scrittura. È l’inseguimento della morte, ma ancora di più della vita, del mondo, del contatto con l’altro e dell’annullamento che esso minaccia, a dettare le leggi di costruzione del rifugio-prigione. Più Kafka è inseguito, più si rintana. Soprattutto di fronte a qualsiasi tentativo di cattura (concettuale) della sua esperienza letteraria.

Chi pretende di seguirne le tracce è costretto a camuffarsi, riprodurre i suoi tentennamenti, le sue esitazioni. Fusini allora insegue Kafka nella tana che si è costruito sotto il regno dei vivi, lo incalza con le sue frasi brevi, paratattiche; la sua prosa ha il ritmo del pedinamento. Rinuncia però a stanarlo subito, a psicanalizzarlo (buona dunque la lezione di Deleuze e Guattari), a torturarlo come si farebbe con un insetto che finisce per bruciarsi le zampette appena lo si pone sotto una piccola lente di Archimede.

Tuttavia, un inseguimento non è mai indolore e la tana diviene facilmente labirinto in cui è facile smarrire e smarrirsi. Kafka va avanti e indietro, parte e poi si ferma, confonde le tracce, gioca dietro le sue aporie insanabili, il suo non decidersi mai tra i possibili, il suo eterno esitare che si traduce in un movimento strozzato, privo di compimento, processo vuoto, senza fondo e senza fine. Il tempo della vita-scrittura kafkiana si gioca in due battute: inizio e poi arresto, nascita ed annullamento. È una lucciola che si accende ad intermittenza. «Il ritmo proprio di una tale esistenza è un andamento a sussulti, che procede per modi interrotti. L’esitazione e l’arresto sono i suoi tempi» (ivi, p. 28). La sua scrittura è fatta solo di cominciamenti. I suoi rapporti con le donne solo di promesse mancate, di possibilità sospese che temono la determinatezza del reale, la concretezza del quotidiano.

Ecco perché due è per eccellenza il numero di Kafka. In esso si condensa l’impossibilità della sintesi dialettica dell’Io e del Tu in un Noi, dell’impossibilità di concepire il rapporto tra queste due entità altrimenti che come distanza e irriducibile differenza. Allo stesso tempo due è la cifra dello sdoppiamento interno a Kafka stesso: il suo esitare tra apertura e chiusura, vuoto e pieno, vita e morte, abbandono all’altro e rifiuto radicale. È quest’ambivalenza a decidere della reiterazione compulsiva di un gesto che non può tramutarsi in azione, di un movimento che non ha esito. Kafka di fronte alla donna (l’Altro per eccellenza) rimane pietrificato.

Emerge perciò anche in un’altra luce la fuga di Kafka, i suoi affanni, le sue energie instancabilmente profuse nella costruzione della tana. Non è che Kafka scappando vuole farsi riconoscere? Individuare, catturare? Non è la tana del racconto un vicolo cieco dove il nemico alla fine ha la meglio? Allora Kafka non vuole forse essere scovato nel nascondiglio della propria angoscia, compreso e assieme giudicato, come pretende da Felice Bauer? Lasciato in pace ma ancora una volta inseguito? Dimagrendo, non vuole scomparire, e allo stesso tempo essere individualità separata e distinguibile dall’entità paterna? Essere zero, ma anche uno?

Kafka è sì incapace di concepire la relazione, ma allo stesso tempo la cerca, ricorre alle lettere. Vorrebbe tendere al vuoto della morte, del silenzio, dello zero, ma allo stesso tempo alla completezza dell’uno, della fusione perfetta che cerca ad esempio nell’abbraccio di Milena. Di questa relazione, respinta e desiderata, con l’altro da sé e col mondo, Due ci restituisce figure e volti. A partire da quello del padre, forse l’unico vero tu, il «Tu assoluto» (ivi, p. 110), che soppianta con la sua corpulenza, con la sua ingombrante invadenza qualsiasi altro tentativo del figlio di riconoscere un Tu nelle «regioni del mondo che si estendono al di fuori della sua portata», e a costruire quindi un nuovo Noi. Non dunque possono mancare i volti delle donne, desiderate e poi respinte, implorate e rifiutate da Kafka: Felice e Milena. Così diverse, eppure accomunate dall’essere volti dello stesso muro contro cui cozza Kafka (o forse sono loro messe di fronte al muro kafkiano?): quella di venire alla luce, rinunciare all’angoscia, al dolore che pur è fonte primigenia dell’invenzione, abbandonare il possibile e decidersi per il reale, decidersi per la terra, per la carne, per una comunicazione aperta fatta di parole vive e non di fantasmi che si nutrono di inchiostro.

Con chi instaurerà allora la relazione più duratura e appagata l’uomo Kafka? A ragione potremmo pensare con la scrittura. Ed effettivamente quel che emerge secondo la Fusini è una sorta di «celibato della scrittura» (ivi, p. 98) che troverebbe un suo degno corrispondente forse soltanto nell’aut aut kierkegaardiano tra eros e vita cristiana. Tuttavia, se la scrittura è la tana della fuga di Kafka dal mondo, essa non è perciò felice evasione dal mondo, né suo necessario completamento, parola chiarificatrice, decisiva, nome che ci rassicura di quell’esistenza delle cose messa in dubbio poeticamente nel Dialogo con l’ubriaco.

La paternità è preclusa a Kafka non solo come esperienza naturale, generazione di esseri umani che lo ricondurrebbe, in quanto padre, al padre, ma anche come paternità rispetto alle proprie azioni e innanzitutto ai propri scritti. Kafka non sa e non può essere padre. La scrittura di Kafka non è opera proprio perché non è figlia, non viene mai alla luce, è un aborto. E quand’anche venisse alla luce, è il mostruoso, l’abnorme, l’incompiuto a cui mancano arti, membra, organi vitali. “Suo padre” se ne vergogna, come confessa nei Diari, rifiuta di riconoscerla, addirittura ordinerà di bruciarla.

Rinunciando volutamente ai toni impersonali di una ricerca accademica, Due è un testo che, riproducendo incessantemente il fascino delle sue aporie, riesce ad entrare in relazione col nodo più intimo della scrittura kafkiana: la relazione stessa nella sua impossibilità. Senza scadere nella sterile e asettica ricostruzione biografica, né in un ingenuo riduzionismo psicologico, Fusini doppia il movimento di Kafka per come esso si presenta nei romanzi, nei racconti e soprattutto nei diari e nelle lettere. Entra in questa maniera in rapporto con lo scrittore, ma stabilisce anche una relazione col suo lettore. Offre a quest’ultimo il dono di una vicinanza inaudita con l’uomo Kafka.

Se Franz Kafka è il singolo irriducibile e inconciliabile alla comunità, la cornacchia che macchia di nero il cielo, lo scherzo dell’esistenza estraneo a tutti e persino a sé stesso, è pur vero che una forma di comunità emerge attraverso i suoi scritti ed è qui illuminata. È quella col lettore (soprattutto il lettore giovane), solo come lui, costretto a rimandare l’incontro con l’altro e incapace, perciò, di conoscere veramente: eterno figlio che tergiversa, si illude, ritarda la comprensione del mondo. Kafka è assieme paradosso e universalità dello scacco dell’esistenza. «Non puntella ognuno di “giustificazioni” la propria esistenza? C’è chi possa dire di vivere senza illusione?”» (ivi, p. 43).

Esiste una speranza, ma non per noi, scrive Kafka all’amico Brod. In questa frase si potrebbe racchiudere il punto d’arrivo dell’inseguimento di Fusini che, giunto all’atto finale, senza stringere il cappio, ma anzi allentando la presa, chiude il cerchio attorno a Kafka. Torna al punto di partenza di Due: la lotta di Kafka con la morte che si insinua nelle camere d’aria del corpo come il nemico scova l’animale nel vuoto costruito sottoterra della tana. L’inseguimento prende fiato proprio nel punto in cui a Kafka il fiato viene a mancare. La prosa si fa più distesa nel testimoniare la resa di Kafka alla vita proprio nel momento in cui questa sembra cedere ogni diritto sul corpo e arretrare di fronte all’avanzare della morte. Forse Kafka non ha intravisto un compimento ai propri cominciamenti o una sola metafora delle sue parabole che rimandasse direttamente al Vero. Non è riuscito a intravedere la luce della sua opera, a darle una chance, una speranza. Eppure, per noi lettori, questa luce riverbera incessantemente proprio nelle fratture di questa lingua, nelle ferite rimaste aperte nella sua scrittura e i cui lembi non combaciano mai perfettamente con una verità assoluta, nei pori di una tana in cui si infila la vita, quella vita fuggita che ritorna comunque come vita sognata. Poco importa se questa luce non è la trasparenza del Sole-Bene che ci viene incontro fuori dalla caverna; essa è comunque luce di una bellezza innegabile. Anche se emana da una luna che ci ostiniamo a chiamare tale, ma in fondo è soltanto «un obliato lampioncino dalle tinte bizzarre».

Riferimenti bibliografici
F. Kafka, Racconti, a cura di G. Schiavoni, Rizzoli, Milano 1985.
Id., Lettera al padre, a cura di F. Ricci, Newton Compton, Roma 2006.

Nadia Fusini, Due. La passione del legame in Kafka, Feltrinelli, Milano 2024.

Tags     Franz Kafka
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