È stato nel modo in cui le ha avvolto la sciarpa intorno al collo. E nell’abbraccio che ne è seguito. In quei gesti ha preso consistenza in Johanne l’illusione che l’uno potesse, finalmente, prendere la forma del due. Esattamente come era accaduto ai due amati di cui aveva letto in un libro nella baita di sua nonna: un gesto di cura, apparentemente insignificante, come principio di un amore possibile. O di qualunque nome potesse prendere, nella condivisione con l’altro, il realizzarsi di tutte le fantasticherie che affollavano la mente della liceale protagonista di Dreams del norvegese Dag Johan Haugerud, Orso d’oro alla Berlinale 75, sin da quando, per la prima volta, aveva posato il suo sguardo su Johanna, sua insegnante di francese. 

Johanne tenta di dare un nome a un sentimento mai provato prima, ad un turbinio di desiderio, vergogna e ossessione, nella sua genuinità adolescenziale. Un proposito vano nella contingenza della prima infatuazione a cui, solo a posteriori, la diciassettenne – e lo spettatore con lei – può guardare come al manifestarsi di una passione. Una passione alimentata dall’insuperabilità dell’ostacolo costituito dalla differenza d’età e di gerarchia (allieva-insegnante) che diventa «saturazione senza scarto con l’oggetto idealizzato, che in quanto tale conta per la sua funzione e non per la sua singolarità» (De Gaetano 2022, p. 15). 

Da qui l’elusione melodrammatica che marca il destino di questo amore e, di conseguenza, il pathos con cui la protagonista vive questa esperienza. Johanne non riesce a condividere le sue sensazioni con la donna. Quando inizia a frequentare la casa di Johanna, che le insegna a lavorare a maglia, le parole della ragazza non riescono mai a farsi parole d’amore, ad esprimere la loro potenza inventiva, impossibilitate a germogliare in un tra-due asfittico, occupato com’è da un in subbuglio che non riesce a distanziarsi dall’altro. Non c’è spazio, insomma, per quel gioco (ivi, p. 10) su cui Guadagnino ha costruito un’altra grande storia di un primo amore adolescenziale: “Chiamami col tuo nome, ed io ti chiamerò col mio”. Johanne e Johanna suonano allo stesso modo.

Come recuperare l’inventività della parola? Come riuscire e prendere distanza dall’altro e, allo stesso tempo, da sé? Attraverso la scrittura. Johanne, interrotti i rapporti con l’insegnante, imbastisce la storia della sua passione non ricambiata, in prima persona. Ciò che spinge istintivamente la ragazza a raccontarsi, in realtà, è la necessità – comune a tante pratiche di autorappresentazione – di lasciare una traccia, mettere in forma, dare ordine e fissare, in questo caso, una memoria che potrebbe sbiadire, un sentimento che esonda, a suo dire, da qualunque catalogazione. Creare, insomma, un “oggetto” (la chiavetta in cui conserva il file della sua confessione) da tenere vicino, tra le mani, per colmare la distanza dal corpo dell’amata.

Johanne non vuole che nessuno legga ciò che ha scritto. Le frasi che ordisce, però, diventano il voice over che accompagna la prima parte del film e iniziano a manifestare degli scarti: delle allocuzioni dirette ad un eventuale lettore (e spettatore). È il che cerca il tu per potersi definire in quanto io. Se la passione ha impedito alla ragazza di riconoscere quel tu nell’insegnante, il distanziamento da sé e dal soggetto idealizzato, come conseguenza dell’atto di scrittura, si realizza nel momento in cui Johanna permette a sua nonna e a sua madre di leggere il suo testo. Le due donne sono colpite dalla scrittura vivida della ragazza – estremamente immaginifica e puntuale nel descrivere la fenomenologia dei moti del suo spirito e del suo desiderio – e, superata una ritrosia iniziale, le suggeriscono di proporre il racconto a un editore.

Le scene del primo incontro e dell’avvicinamento con l’insegnante si rivelano retrospettivamente, quindi, una sorta di adattamento del testo di Johanna, le cui immagini hanno la forma e i colori dei suoi pensieri. E poco importa, come dice la ragazza a sua madre, se quelle parole che si fanno immagini sono un resoconto esatto di ciò che è accaduto: tra la scrittura e la vita si genera un’illusione di referenza che rende la distinzione tra fiction e autobiografia indecidibile (cfr. de Man 1979). La scrittura del sé, in particolar modo quando retrospettiva, è ontologicamente trasformativa (dell’io e del vissuto), perché lo è la memoria su cui essa si basa e, in fin dei conti, la stessa percezione alterata dalla passione

E, in parte, risiede proprio nell’inscrivere l’io e il vissuto in una narrazione, nel mythos della passione, il valore terapeutico (o catartico, nel senso aristotelico) della scrittura, trasformativa al punto da permettere al personaggio di liberarsi dal destino melodrammatico e aprirsi all’incontro. L’incontro di Johanne con le sue prime lettrici, con lo spettatore, con un’altra ragazza nel finale del film. È, in fondo, questo il cuore della “trilogia delle relazioni” di Dag Johan Haugerud (come l’ha definita lo stesso regista, riferendosi, oltre a Dreams anche a Sex e Love): romanzi di personaggi che, vagando tra le strade di una Oslo che sembra abbracciarli, riscoprono la libertà di incontrare l’altro e se stessi.  

In Johanne, però, c’è un’urgenza che manca agli altri personaggi del regista e sceneggiatore norvegese. Forse è un caso che, in questo gioco di nomi, continui a risuonare l’assonanza Johanne-Johanna-Dag Johan. Di certo, però, l’intercessione tra autore e personaggio sembra farsi più evidente in questo film in cui la protagonista non smette mai di accompagnare lo spettatore con il suo voice over, anche quando il racconto dell’amore sfumato finisce e la vediamo interagire con la madre e la nonna e poi, con un salto temporale, la ri-incontriamo diciottenne. Solo a quel punto, infatti, ci si rende conto che il tu a cui spesso aveva alluso Johanna è il suo psicanalista, doppio dello spettatore.

Se l’Es ha cercato di riconoscere il proprio Io attraverso la scrittura, al sé, che va autenticandosi grazie a questo processo di (auto)analisi mediato dall’apertura all’incontro con l’altro, non resta che confrontarsi con il Super-Io. Ed è in questo scontro che si manifesta lo slancio vitale di una soggettività colta nel suo germogliare: Johanne, alla sua prima seduta di terapia, chiede allo psicanalista se, per affrontare tutto ciò che ha vissuto, sarebbe necessario continuare il trattamento. L’uomo le ricorda che si è solo innamorata e ha solo scritto un libro, ma l’analisi può sempre essere utile per imparare a conoscersi. 

Metabolizzare la memoria, spogliarsi del destino e vivere l’accidentale implica giungere alla consapevolezza di essere in divenire. Johanne non potrà mai conoscersi, perché continuerà a mutare: quindi, si chiede, dovrà andare per sempre in terapia? Probabilmente. E, nel frattempo, potrebbe affidarsi alla potenza inventiva e trasformativa della scrittura, e creare nuove storie. Come ha fatto il regista con la sua trilogia, i cui personaggi si riconoscono “nuvole alla deriva”. Come dice la Johanne all’inizio della sua storia, con quella voracità sognante che, forse, è solo dell’adolescenza: “Vi sembra banale? È perché prendete tutto troppo alla lettera.”.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Le immagini dell’amore, Marsilio, Venezia 2022.
P. de Man, Autobiography as De-Facement, in “Comparative Literature”, vol. 94, n. 5, The Johns Hopkins University Press, Baltimora 1979.

Dreams. Regia, sceneggiatura: Dag Johan Haugerud; fotografia: Cecilie Semec; montaggio: Jens Christian Fodstad; interpreti: Ane Dahl Torp, Selome Emnetu, Ingrid Giæver, Anne Marit Jacobsen, Ella Øverbye; produzione: Motlys; distribuzione: Wanted; origine: Norvegia; durata: 110’; anno: 2025.

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