È indubbia la vitalità che continua ad animare i mostri classici: lo dimostrano le recenti uscite cinematografiche – dal rovesciamento di prospettive in Nosferatu (2024) di Robert Eggers, al ritorno mordace degli zombie rabbiosi in 28 anni dopo (2025) di Danny Boyle, fino all’analisi critica della società rumena attraverso il folklore pop in Dracula (2025) di Radu Jude, e all’estetizzazione del mostro in Frankenstein (2025) di Guillermo Del Toro – solo per citare i film dell’anno in corso. Si tratta di figure la cui classicità viene costantemente rigenerata, anche nelle riscritture più radicali, che ci ricordano – e insieme ci spingono a interrogarci – sui motivi della loro instancabile fascinazione e sull’inesauribile “paradosso del cuore” (Carroll 1990) al centro dell’esperienza estetica dell’horror.

Tra queste figure, il mito di Dracula riemerge con particolare impeto, collocandosi al crocevia tra l’indagine storico-filologica – si pensi all’operazione The Death of Dracula (2025), realizzata da un gruppo di studenti dell’Università della Transilvania, che ha rimesso in scena il film ungherese Drakula halála (1921) di Lajthay, liberamente ispirato al Dracula (1897) di Stoker, oggi noto solo attraverso alcuni fotogrammi e una novellizzazione – e la stratificazione di variazioni e aggiunzioni che ne rinnovano costantemente immagini e temi. È proprio in questo crocevia che si situa Dracula – L’amore perduto (Dracula – A Love Tale) di Luc Besson.

Il regista francese si inserisce nel solco tracciato da Coppola con il suo Bram Stoker’s Dracula (1992), muovendosi anch’egli nella direzione di un cinema che “ripensa la mostruosità attraverso la comprensione delle motivazioni del mostro” (Weinstock 2017, p. 215, trad. mia). La narrazione di Besson aderisce al modello del regista americano: un prologo che mostra la tragedia della morte della principessa Elisabetta (Zoë Bleu Sidel) durante la guerra contro gli Ottomani; il viaggio di Jonathan Harker (Ewens Abid) al castello di Dracula; la reincarnazione di Elisabetta in Mina Murray (promessa sposa di Jonathan); il rinnovato amore tra il conte e la sua principessa; la caccia al vampiro guidata da Van Helsing (Christoph Waltz) e dai suoi alleati; infine, la morte del mostro. Besson riprende dunque il prologo ambientato alla fine del XV secolo – una variazione significativa e originale rispetto al romanzo di Stoker – conservandone il respiro cromatico, dominato da un rosso infuocato, pur ampliandone il nucleo drammatico.

Concentrandosi sulla passione amorosa tra Vlad II (Caleb Landry Jones) ed Elisabetta – la parte iniziale, ambientata nella camera da letto viene coreografata come lo spazio di un desiderio interminabile – Besson mitiga la dimensione demonica di Dracula: l’ira blasfema si trasforma in una rabbiosa e violenta quanto commossa richiesta a Dio di reincarnare l’amata. Nel film, i momenti narrativi dello schema tradizionale di Coppola e Stoker vengono riorganizzati per inserire ulteriori snodi ed esplorare inedite configurazioni visive. Ciò appare evidente nel lungo flashback in cui Dracula, spinto dalla richiesta di Jonathan, ripercorre il proprio secolare lutto. Il vampiro di Besson, la cui decrepitezza richiama il conte interpretato da Gary Oldman, incornicia la propria malinconia in parole che ravvivano una tempestosa solitudine, e ricordano la tragedia dell’umanizzazione del mostro trattata da Herzog nel suo Nosferatu (1979): “vivere senza amore è la peggiore delle malattie. È come una pioggia sottile e incessante che, a poco a poco, ti consuma le ossa, trasformandoti in una spugna informe, incapace di restare in piedi”. Besson colloca dunque il film sul crinale tra la fedeltà al mito letterario e la rilettura postmoderna di Coppola, e una libera coniugazione figurativa e narrativa volta a intensificare la sensualità intrinseca all’alterità del mostro e la drammaticità delle sue emozioni umane

Questi tratti emergono chiaramente nel gioco di rimescolamento dei ruoli e nel ricorso ad accesi contrasti visivi. Renfield è sostituito da Maria (Matilda De Angelis), versione vampirica di Lucy Westenra, dominata da un appetito sessuale insaziabile; il peso narrativo di Jonathan Harker appare ridotto e funzionale alla secolare ricerca della reincarnazione di Elisabetta nelle corti europee; il nome “Van Helsing” non viene mai menzionato, e il personaggio viene presentato come un prete affascinato dall’occulto e a capo di una congrega di cacciatori di vampiri. Il viaggio di Dracula nelle corti europee si sviluppa attraverso momenti di pura composizione coreografica che, grazie a una messa in scena e a un montaggio più vicini al musical e al period drama che al gothic horror, infondono al racconto intriso di lutto e speranza un’improvvisa leggerezza. Così, la scena della vampirizzazione degli ospiti di Versailles – la cui struttura può richiamare il banchetto finale di The Addiction (1994) di Ferrara – si trasforma in un vertiginoso spettacolo libertino, in cui la grazia dei gesti convive con la brutalità del morso vampirico. La sequenza si chiude con il morso al collo di Maria: un momento liberatorio, in cui il piacere sensuale coincide simbolicamente con la caduta del toupet e la liberazione della folta chioma rossa della ragazza.

È proprio sull’aspetto liberatorio e sovversivo della sensualità del vampirismo che il film insiste. Per ritornare giovane e raggiungere Elisabetta/Mina a Parigi, il conte sceglie di saziarsi del sangue virgineo di giovani monache di clausura. L’ingresso nel convento è carico di una teatralità blasfema (“nel nome del padre, del figlio e dello spirito maligno”) che esplode in un’ulteriore coreografia della sensualità. Il potere afrodisiaco del vampiro conduce le monache a una passione fuori controllo che, se da un lato sazia la sete di Dracula, dall’altro libera la loro carne dalla prigionia dei voti monastici: “Guardate cosa ha fatto di voi Dio. Cuori di pietra e corpi dormienti che soffocano sotto la loro stessa carne. Lasciate che vi liberi da questa prigione”.

Il vampirismo come liberazione si riverbera nella relazione tra Dracula ed Elisabetta/Mina. L’attrazione irresistibile della ragazza verso il suo principe non è soltanto una inaspettata ricongiunzione sentimentale, ma esprime anche la consapevolezza della superficialità della sua storia con Jonathan: davanti al prete e al dottor Dumont (Guillaume de Tonquédec), Mina confessa: “mi sento come se non appartenessi a questo tempo”, presentandosi come un soggetto imprigionato nelle regole sociali tardo-ottocentesche. La passione che travolge i due all’interno della camera da letto di Mina, mentre in casa sono presenti Jonathan e gli altri, diviene allora una sfacciata sovversione di quei medesimi codici. In conclusione, nel film di Besson, il vampirismo non viene inquadrato in una decadenza metafisica, ma in una sgargiante opulenza: lo dimostra la rappresentazione del castello di Dracula, non più luogo di rovina, ma sontuosa cattedrale gotica, luminosa e spettacolare.

È forse questo, in definitiva, l’intento di Besson: celebrare il vampiro scomponendo e ricomponendo il dramma sentimentale alla radice della sua maledizione, variandone le sorti – come nel finale, in cui non è la consueta congrega maschile a salvare Mina, ma lo stesso vampiro, artefice di un sacrificio salvifico dal tono favolistico. La celebrazione del mito passa anche attraverso il dialogo con diversi generi cinematografici (oltre a quelli già citati, non mancano sequenze d’azione, tipiche del cinema del regista francese, come quando Dracula stermina i gendarmi rumeni che assediano il castello) e un fitto intreccio di citazioni visive. Il film si adagia infatti su un tessuto di rimandi e confronti, che trova la sua esplicita espressione nei grandi dipinti che decorano la sala da pranzo del conte, dove si riconoscono le pose di Bela Lugosi, Gary Oldman, Brad Pitt e altre icone del vampirismo cinematografico. Non a caso, “magnifico” sarà il commento di Jonathan, mentre osserva esterrefatto le immagini sulle pareti. Da questo sfondo di icone, Besson ricava per il suo personaggio una libertà espressiva e trasversale, che dialoga con la teratologia classica e con le pose di una de-mostrificazione ormai sempre più consolidata e attuale nel gothic horror.

Riferimenti bibliografici
C. Noël, The Philosophy of Horror, or Paradoxes of the Heart, Routledge, London, 1990.
W. J. Andrew, American Vampires, in American Gothic Culture. An Edinburgh Companion, a cura di, J. Haslam, J. Faflak, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2017, pp. 203-221.

Dracula – L’amore perduto. Regia: Luc Besson; sceneggiatura: Luc Besson; fotografia: Colin Wandersman, Vincent Richard; montaggio: Hugues Tissandier; musiche: Danny Elfman; interpreti: Caleb Landry Jones, Zoë Bleu, Christoph Waltz, Ewens Abid, Matilda De Angelis, Guillaume De Tonquédec, Romain Levi, Raphael Luce, Bertrand-Xavier Corbi, Ivan Franek, Jassem Mougari; produzione: Luc Besson Production, EuropaCorp, Ciné+OCS; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, Gran Bretagna; durata: 109′; anno: 2025.

Tags     Dracula, vampiro
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