Per poter presentare Don’t Worry Darling, secondo lungometraggio di Olivia Wilde, non possiamo che riferirci alla sua esperienza personale, che sicuramente gioca un ruolo nella grande allegoria che la regista ha voluto costruire. Olivia Wilde sarà nota ai più come la giovane attrice di qualche produzione televisiva statunitense. Tra i ruoli che ne hanno sancito il successo, ricordiamo la ribelle manager di un night club in The O.C. e la brillante assistente del Dr. House, dell’omonima serie, da lui denominata “Tredici”. Nell’epoca in cui i telefilm diventano serie TV anche Wilde cambia, nel giro di un decennio, la sua carriera. Alla fine degli anni ‘10, dopo qualche ruolo non esattamente di rilievo come attrice, decide di passare alla regia, esordendo nel 2019 con La rivincita delle sfigate, una commedia senza troppe pretese, ma è con Don’t Worry Darling che sembra compiere un passo importante in questa direzione. Forse proprio partendo dal percorso personale di Wilde si può capire dove il suo secondo film, progetto decisamente ambizioso, voglia andare a parare.
Don’t Worry Darling è ambientato nella città fittizia di Victory, in California, dove Alice (Florence Pugh) vive la sua esistenza stereotipata col marito Jack (Harry Styles). Lui, ingegnere, lavora da mattina a sera nel deserto, impegnato in un progetto alquanto segreto finanziato dalla Victory Company, del quale neanche Alice è a conoscenza. Le donne, in attesa dei mariti fino a sera e ignare delle mansioni da essi svolte, si dilettano in un turbinio di cliché anni ’50, passando il tempo al centro commerciale, in piscina, a sbrigare le faccende di casa, a spettegolare e attendere i loro mariti, desiderose di soddisfarne tutti gli appetiti una volta rientrati alle loro dimore.
Tutte le coppie sembrano fatte con lo stampino, mogli in particolare, con l’eccezione della vicina di casa di Alice chiamata Margaret. Quest’ultima vive un momento di distacco dal marito e un sostanziale malessere, che la porta ad isolarsi dalle altre persone, tutte intente a partecipare ad eventi aziendali e cene domestiche. Sembrerebbe il classico plot di un contesto di omologazione in cui una voce dissidente cerca di farsi sentire e gridare la sua alterità, se non fosse che, dal primo fotogramma, l’affresco dipinto risulta sì immaginario, iconico, stereotipato, ma allo stesso tempo una patina di inverosimiglianza avvolge il tutto, lasciando lo spettatore in dubbio del fatto che si tratti di scadente resa scenografica, costumistica e registica o di un effetto voluto.
È ovviamente quest’ultimo a prevalere e lo si capisce dopo poco. L’universo creato non regge l’esame del realismo. Troppo plastico, troppo ordinato, quasi parodistico. Eppure è lì, contraddittorio, e nasconde quale piega la narrazione voglia prendere. Bastano pochi minuti e il tutto evolve, per diventare ancora più confuso. Mentre Alice sembra cominciare a costruire lo stesso dissenso e malessere di Margaret, scene tra lo psichedelico e l’allucinatorio compaiono sullo sfondo appena descritto. Ballerine in bianco e nero, bolle d’aria e di sangue, immagini allo specchio che non riflettono il mondo circostante. Se Wilde voleva confondere le idee ci riesce, ma a che pro?
È proprio questo il nodo cruciale del film, una tensione che sale in maniera insensata, un lirismo allucinato che non sembra avere un perché, mentre Alice nutre dubbi e sospetti sulla realtà che vive. Lascia sicuramente disorientati (e forse a volte infastiditi) ma c’è un filo conduttore, in quella che sembra una trama banale, che invita comunque a proseguire la visione. Alice entra in pieno conflitto con l’universo Victory e con il marito, il quale non esita a farla rinchiudere, tra le lacrime, trattandola da psicopatica. E tale potrebbe essere davvero, per come Wilde la fa apparire.
Negli ultimi minuti di pellicola il tutto assume un significato diverso. L’impalcatura californiana crolla e la rituale quotidianità si spezza proprio quando Alice sembra essere tornata in sé (cioè come Jack la desidera) dopo l’elettroshock. La protagonista ricorda tutto, la sua vera vita e condizione, sacrificata dal marito sull’altare di una realtà virtuale ma estremamente sensibile e concreta. E allora lì si può guardare il film da un’altra prospettiva.
La chiave di volta è già nel titolo. Don’t Worry Darling è il sussurro di un uomo alla sua donna. Ho già pensato a tutto io, ho progettato e realizzato la nostra vita al meglio, ora non ci resta che viverla e tu non avrai nulla a cui pensare. «Don’t worry darling», appunto. Non dovrai più preoccuparti di nulla. L’universo che Jack ha scelto per Alice è il prototipo ideale maschile. Una carriera in un progetto importante per lui, realizzazione economica e professionale. Vita sociale e di coppia, una bella mogliettina a casa che mette a posto e cucina, pronta a soddisfare ed essere soddisfatta sessualmente, e amici che partecipano a cenette e seratine.
È un iperuranio platonico totalmente a direzione maschile, ma non solo. Jack non è semplicemente convinto che quella sia la vita ideale per lui, ma pensa che lo sia anche per Alice. Ed è proprio qui il nocciolo della questione; gli uomini non sono egoisti, non pensano solo a loro, anzi, sono un perfetto esempio di egocentrismo altruista. Pensano al bene della loro partner ma lo fanno solo nel senso che loro trovano giusto e legittimo.
Wilde sembra quasi suggerirci che, se gli uomini potessero, sceglierebbero quel mondo lì, quelle dinamiche da pubblicità finta di un’altra epoca, con una donna che li serve mentre loro sono occupati a prendersi il mondo. E ce lo suggerisce in un contesto futuristico, la cui distanza temporale appare comunque prossima. Non sono cambiati, sono sempre opprimenti ed egocentrici, pronti ad additare la prima donna che dissente come isterica. Già, perché nell’etimo di isterica c’è l’utero, che ci ricorda che l’idea di una donna instabile e insensatamente emotiva viene da lontano.
Allo stesso modo, ciò che costituisce il punto di svolta nella narrazione rischia di essere anche l’elemento di debolezza negli intenti della regista. Probabilmente ci sono ancora molti maschi che ragionano e bramano come Wilde sembra raccontare, ma allo stesso tempo il pericolo di perdersi la complessità del fenomeno è dietro l’angolo. Maschio cieco e bigotto contro femmina libera e indipendente rischia di essere l’estrema banalizzazione di dinamiche molto più grigie del bianco e nero dipinto.
D’altronde, Wilde non poteva che essere netta nella regia di questo film. Lei che non si è accontentata di essere l’eterna ragazza, personaggio secondario di qualche serie televisiva, ha scelto di auto- e ri-determinarsi inventandosi regista. E così la sua protagonista sceglie di svegliarsi e ribellarsi ad un universo creato per lei da uomini. Il parallelismo sembra fin troppo evidente e rischia di non tener conto della portata delle scelte nella vita. È forse vero che ogni donna, anzi ogni persona, possa autodeterminarsi, ma questo non la libera dai vincoli a cui tutti dobbiamo sottostare e che ci rendono umani. Non tutti possono diventare grandi cestisti, letterati o scienziati. L’assenza di catene che ci tengono legati a terra non basta a poter volare, servono le ali. E Olivia Wilde, come regista al suo secondo lungometraggio, ancora non le ha.
Don’t Worry Darling. Regia: Olivia Wilde; sceneggiatura: Katie Silberman; interpreti: Florence Pugh, Harry Styles, Olivia Wilde, Gemma Chan, KiKi Layne, Nick Kroll, Chris Pine; produzione: New Line Cinema, Vertigo Entertainment; distribuzione: Warner Bros.; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2022; durata: 94′.