“Quindi, non avrete mai dei figli con lui? / Magari con Lizzy li avrà! / E chi è Lizzy? / La mia sorellina”. Con l’invenzione di questo dialogo fra Jenny e Mary, il regista di Il giovane Karl Marx (2017), Raoul Peck, lascia dire alla compagna di Engels parole altrimenti inconfessabili. Sulla spiaggia di Ostenda, Mary rivela a Jenny, la moglie di Marx, che è la libertà il suo unico desiderio. Una libertà che essa può concedersi proprio perché non intende piegarsi ai condizionamenti della famiglia borghese, al punto che non le dispiacerebbe affatto se il compagno decidesse di avere un figlio con la sorella.

Nel 1975, l’antropologo marxista Claude Meillassoux propone al pubblico un’inedita lettura dei rapporti di riproduzione e dei sistemi parentela, nel tentativo di dimostrare le fallacie dell’etnologia classica e dei teorici del marxismo. In quegli stessi anni, le critiche di Meillassoux venivano inquadrate dalle femministe marxiste della rottura (Curcio 2019), come la premessa, necessaria, al riconoscimento del lavoro riproduttivo e di un salario per le lavoratrici domestiche (Federici 2014).

Con una nuova prefazione di Lorenzo D’Angelo, torna alle stampe dopo più di quarant’anni dalla prima edizione italiana, curata da Ugo Fabietti, Donne, granai e capitali. Uno studio antropologico dell’imperialismo contemporaneo (Meillassoux 2022). Tra le novità di quest’ultima edizione va senz’altro menzionata l’essenziale mappatura – che il nuovo curatore propone in premessa – del rapporto tra antropologia e marxismo. Un rapporto che D’Angelo non fa fatica a definire “complesso” (ivi, p. X), ma per mezzo del quale, anche grazie alla complicità di incursioni biografiche, riesce a fissare e a stabilire l’importanza che la figura di Meillassoux ha ricoperto nella tradizione dell’antropologia marxista.

È a una di queste incursioni che dobbiamo, per esempio, la conoscenza di un seminario che l’antropologo francese organizza nel 1969, passato alla storia come “il seminario Meillassoux”. Il curatore lo definisce «un luogo di incontro transdisciplinare in cui si discute, tra le altre cose, di economie tradizionali e capitaliste, sviluppo e sottosviluppo, neocolonialismo e imperialismo» (ivi, p. IX). La natura e i toni dell’incontro parrebbero, tuttavia, non essere in grado di assimilare e di sostenere il peso di un’impresa che, certamente, si rivelerà più complessa. È con Donne, granai e capitali che il significato della ricerca teorica intrapresa dall’antropologo marxista si appresta a divenire tangibile. Ripulendo il terreno dalle scorie del funzionalismo, dello strutturalismo, del proto-marxismo e del marxismo, Meillassoux garantisce al tema della riproduzione di farsi spazio tra le radici più insidiose dell’etnologia classica, permettendogli, così, di venire definitivamente allo scoperto.

Ancorché vertiginosa, l’architettura del testo di Meillassoux combacia perfettamente con il progetto intellettuale dell’autore e, in particolare, con l’idea che posticipando la descrizione dell’oggetto d’indagine – il funzionamento della comunità domestica – si creino i presupposti necessari per anticipare le mosse dei propri avversari teorici, così da ribaltarne il destino e la fortuna accademici. Sin dalle primissime battute la posta in gioco è, infatti, la liberazione della nozione di parentela dalle secche teoriche dell’etnologia classica e, in particolare, dagli esiti a cui era giunto Levi-Strauss (2003). Se per gli etnologi tradizionali la parentela rappresentava «un dato primario e di portata universale» (Meillassoux 2022, p. 1), per l’antropologo marxista essa andava messa, di volta in volta, a confronto con i dati dell’organizzazione economica e sociale di una specifica comunità produttiva.

Ma Meillassoux passa al setaccio della sua analisi critica anche il lavoro di Marx ed Engels, ai quali attribuisce la responsabilità di aver trattato i rapporti di parentela come rapporti di «consanguineità» (ivi, p. 6), avvalorando, di fatto, le tesi dei naturalisti e di tutti coloro i quali rintracciavano nella natura il fondamento per un’organizzazione profondamente gerarchica della società. Letto a posteriori, il tentativo di Meillassoux gettava anzitempo luce sulle tattiche da adoperare per provare a indebolire l’armamentario teorico dei naturalisti, di coloro i quali, cioè, hanno storicamente usato la natura come un’arma contro il capitale politico dei soggetti dominati e, soprattutto, della classe delle donne (Guillaumin 2020).

Emblematico risulta, in tal senso, il caso dell’incesto, la cui presunta naturalità viene ampiamente sconfessata dall’autore di Donne, granai e capitali. In queste pagine, egli non si limita a segnalare le fallacie di un’argomentazione che pretendeva di assegnare alla proibizione dell’incesto il carattere di universalità, ma attribuisce a tale proibizione un valore squisitamente politico. Come fa notare Meillassoux:

Lungi dall’essere radicata nella natura la proibizione dell’incesto è la trasformazione culturale dei divieti endogamici (cioè delle interdizioni di carattere sociale) in proibizioni sessuali (cioè naturali o morali e di portata assoluta) allorché il controllo del matrimonio diviene un elemento del potere politico (ivi, pp. 16-17).

Ciò che l’antropologo francese porta qui allo scoperto è la reale funzione del tabù dell’incesto, la cui violazione avrebbe provocato nelle economie domestiche l’alterazione del potere politico gestito dagli anziani e finalizzato prevalentemente al controllo dei mezzi della riproduzione e, cioè, delle donne.

Tradizionalmente letta in rapporto e in funzione dei modelli produttivi successivi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo), con Meillassoux l’economia domestica viene analizzata alla luce di ciò che l’ha preceduta, l’organizzazione economica e sociale delle “orde” o bande di cacciatori-raccoglitori. Ciò che con questo gesto l’antropologo chiarisce immediatamente è la volontà di non aderire ai principi della razionalità economica eurocentrica, la cui ambizione consisteva nel dimostrare che l’economia domestica non fosse altro che il livello primordiale di una supposta scala evoluzionista. Esaminando nel dettaglio l’organizzazione delle bande, Meillassoux è in grado di stabilire la diversa qualità dei rapporti di riproduzione e i principi economici in base ai quali essi si determinino nelle società di caccia e di raccolta. A differenza delle comunità domestiche, per le quali la terra rappresenta un mezzo di lavoro, nelle bande di cacciatori-raccoglitori la terra costituisce l’oggetto di lavoro.

E poiché nelle società di caccia e di raccolta lo sfruttamento immediato della terra non generava l’esigenza di immagazzinare i beni di sussistenza in vista dei periodi di inattività produttiva, tra i membri di queste società venivano a costituirsi rapporti di adesione e di accoppiamento, cioè legami temporanei e instabili. Al contrario, nelle comunità agricole i rapporti tra i membri non potevano che essere di discendenza e di filiazione, giacché la stabilità di questi rapporti assicurava il mantenimento della forza lavoro nei periodi di inattività. I risultati ottenuti per mezzo del confronto tra bande di cacciatori-raccoglitori e comunità agricole, consegnano, dunque, a Meillassoux l’opportunità di rivedere uno dei capisaldi dell’etnologia classica e, precisamente, l’universalità delle strutture elementari della parentela.

Va da sé che il tentativo di sottrarre la parentela all’universalità e alle astrazioni dell’etnologia classica fa di Meillassoux un precursore della de-naturalizzazione e della ripoliticizzazione dei legami tra membri di una comunità produttiva, anticipando, di fatto, questioni che con l’avanzare del capitalismo hanno coinvolto l’idea stessa di famiglia e il ruolo della sfera riproduttiva. Il passaggio alla seconda sezione del volume trattiene tutti gli elementi di complessità enucleati da Meillassoux nelle pagine che egli dedica all’analisi della comunità domestica. E d’altra parte, il tema di questa seconda e ultima parte di Donne, granai e capitale non muta radicalmente, ma semmai fa slittare in avanti gli esiti del suo lavoro sulla comunità domestica, descrivendo come l’imperialismo ha sfruttato e si è appropriato di questa. Alle critiche mosse nei confronti dell’etnologia classica si sommano, in questa sezione, i dubbi e le perplessità che Meillassoux non nasconde di provare al cospetto delle ipotesi formulate dai teorici marxisti e dagli economisti in merito al tema dello sfruttamento coloniale.

Se mettere al centro la riproduzione aveva significato, per l’antropologo francese, indebolire le astrazioni e le posizioni degli etnologici classici, mettere un freno alle teorie dello scambio ineguale – tra centro e periferie – nella redistribuzione del costo del lavoro, avrebbe potuto arginare, secondo Meillassoux, il «supersfruttamento» della classe dei lavoratori nelle colonie e, con esso, le derive razziste dell’imperialismo. Ciò che Meillassoux mette in chiaro è la funzione della comunità domestica e i vantaggi che questa organizzazione offre al capitalismo in termini di plus lavoro «equivalente alla durata del tempo libero» (ivi, p. 132) dei contadini. «La durata relativamente lunga della stagione morta e la sua continuità» – continua Meillassoux – «facilitano la mobilità dei contadini a favore della classe sfruttatrice» (Ibidem).

Ancora una volta, l’elemento della mobilità coincide, per l’antropologo, con la chiave di lettura dei rapporti di forza tra la classe dominante e la classe dei dominati. In questo caso, è la mobilità dei contadini dalle aree rurali alle zone industrializzate – cioè a dire le migrazioni – ad assicurare il mantenimento e la riproduzione del capitale. Soprattutto, è la centralità della riproduzione nella comunità domestica a far sì che a differenza del feudalesimo, distrutto dal capitalismo nel processo di accumulazione primitiva, essa non scompaia ma, al contrario, venga conservata. In tal senso, il mantenimento e la riproduzione della forza lavoro sfruttabile e sfruttata vengono, qui, assicurati dall’esistenza della comunità domestica nelle colonie. Sostiene Meillassoux:

Perché il capitalismo possa riprodursi devono crescere proporzionalmente le forze produttive sulle quali esso si fonda […] la forza lavoro deve aumentare tanto in senso qualitativo che quantitativo. A questo problema l’imperialismo europeo fornisce una soluzione mediante la divisione del proletariato internazionale (ivi, p. 169).

La creazione di un doppio mercato del lavoro, segnato dalla divisione in lavoratori stabilizzati e integrati e lavoratori migranti che, grazie alla conservazione della comunità domestica, possono essere impiegati temporaneamente e a intermittenza, restituisce il senso della vocazione profondamente razzista dell’ideologia imperialista.

Alle conclusioni è affidato il compito di ragionare sul ruolo della famiglia all’interno di modi di produzione capitalista. Più che altrove, risuonano in queste pagine finali le rivendicazioni politiche e teoriche delle femministe marxiste della rottura, fondate sulla centralità economica e politica del lavoro domestico e sulla necessità delle donne di lavorare in un ambiente libero dalle logiche dello sfruttamento, tipiche dei luoghi di lavoro maschili. La riedizione di Donne, granai e capitale, può in definitiva servire a ricostruire quel filo diretto tra le analisi di Meillassoux e le posizioni teoriche del femminismo materialista e marxista della rottura, piegato dal tempo e, talvolta, oscurato dall’accumulazione di certi modi di produzione del sapere.

Riferimenti bibliografici
A. Curcio, a cura di, Introduzione ai femminismi. Genere, razza, classe, riproduzione dal marxismo al queer, Derive e Approdi, Roma 2019.
S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona 2014.
C. Guillaumin, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, Ombre Corte, Verona 2000.
C. Levi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2003.

Claude Meillassoux, Donne, granai e capitali. Uno studio antropologico dell’imperialismo contemporaneo, Pigreco, Roma 2022.

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