Ricordo che mentre lo scrivevano ho discusso varie volte, per interi pomeriggi, con don Lorenzo e i suoi scolari, consigliando di essere un tantino più politici con gli insegnanti. Facevo osservare che un minimo di rinnovamento educativo si avrà solo coinvolgendoli in un processo di generale rinnovamento socioculturale e sociopolitico e che perciò più che frustarli, occorreva sforzarsi di convincerli. Tanto più che essi stessi sono le vittime, consapevoli e non, d’un sistema educativo che li vuole esecutori rassegnati, conformisti, senza idee e senza ideali, di programmi e direttive calanti dall’alto. Come tutto cade dall’alto nella nostra società autoritaria a struttura piramidale. Ma loro mi rispondevano, e non avevano tutti i torti, che il libro lo stavano scrivendo per i babbi e le mamme dei milioni di Gianni che ci sono nel mondo, e in Italia, e da noi, qui, nella civile Toscana (Vittorio Zangrilli, direttore didattico dal 1959 al settembre 1966 della scuola elementare di Vicchio, in Baldelli 1967, p. 23).
Lettera a una professoressa, il libro che don Lorenzo Milani scrive insieme ai suoi studenti di Barbiana fra il 1966 e il 1967, è uno dei testi più citati e meno conosciuti del nostro dopoguerra. Non che non sia stato letto integralmente da molte e molti nei decenni che hanno seguito la sua pubblicazione, anzi. Ma il portato ideologico, positivo o negativo, attraverso cui questo testo è stato avvicinato, ne ha stravolto senza dubbio la ricezione, trasformandolo, di volta in volta, in strumento di liberazione e di rivolta, o di ammutinamento e rovina, per l’intero sistema scolastico. In ogni caso si è perso da subito per strada, e non è un dettaglio secondario, il destinatario principale a cui questo libro è stato dedicato, ovvero i genitori. Il libro è infatti un «invito a organizzarsi» per quei babbi e quelle mamme dei milioni di Gianni umiliati dalla scuola che don Milani ha incontrato nella sua vita di “insegnante”. Non un testo per gli studenti né per i professori ma per i genitori. Un dato su cui vale la pena riflettere in tempi come i nostri nei quali in molti, da destra e da sinistra, guardano alla presenza dei genitori nella vita scolastica come una delle peggiori cancrene da estirpare.
Lorenzo Milani nasce nel 1922, in una famiglia ricca e di antica cultura: i Weiss, da parte materna, lo legano al cosmopolitismo degli ebrei triestini, i Milani sono discendenti di quel Domenico Comparetti filologo illustre la cui moglie Elena Raffalovich ha fondato i primi asili froebeliani in Italia. Lorenzo Milani è Pierino, figlio del dottore, sa cosa significa possedere le parole, sa cosa significa avere una famiglia che, insieme ai beni materiali, ha potuto trasmettergli quella eredità intangibile che fin dalla più tenera età distingue chi comanda da chi ubbidisce. Per questo guarda con attenzione non solo i figli della miseria della «civile Toscana», ma anche i loro genitori:
Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto, la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla.
Fin dai tempi di Calenzano, dagli appunti presi per scrivere le Esperienze pastorali (1957), don Milani sa che il silenzio dei genitori non sempre, però, è innocente: molto spesso sono loro stessi che ostacolano il percorso scolastico dei figli, per bisogno, alleandosi di fatto con insegnanti che li fanno rimanere alle scuole elementari molto più a lungo del dovuto: «Nessun maschio ha finito le elementari a un’età normale. Anche questo dato fa intravedere qualcosa che non va: o che i nostri ragazzi di campagna non riescono a fare neanche le elementari, o che i genitori fanno il possibile per farli ripetere perché non intendono mandarli a altre scuole».
Quando don Milani arriva a Barbiana ce ne mette di tempo per fare accettare a babbi e mamme che quella cosa che viene chiamata scuola può essere per i loro figli non solo un’inutile spesa e perdita di tempo ma qualcosa di più. Per tutti anche per loro. I genitori devono essere in qualche modo educati a pretendere di più dalla scuola: in troppi, infatti, prendono solo quello che viene e se qualcosa che è stato istituito per legge non c’è, come il doposcuola, non se ne lamentano: «Di doposcuola comunali non ne esiste più. Non potete accusare i genitori. Hanno capito che non ci tenete. Se no, servili come sono, v’avrebbero mandato i ragazzi non solo al doposcuola, ma anche a letto». Eppure, don Milani non li disprezza questi genitori ignoranti, maleducati, perfino servili, perché sa che non hanno gli strumenti per cogliere la complessità e l’ingiustizia del mondo in cui loro e i loro figli vivono. Ma gli altri, che questi strumenti li hanno, questi altri come si comportano?
Altri hanno in odio l’eguaglianza. Un preside a Firenze ha detto a una signora: “Non si preoccupi, lo mandi da me. La mia è la media meno unificata d’Italia”. Giocare il popolo sovrano è facile. Basta raccogliere in una sezione i ragazzi “per bene”. Non importa conoscerli personalmente. Si guarda pagella, età, luogo di residenza (campagna, città), luogo di origine (nord, sud), professione del padre, raccomandazioni. Così vivranno nella stessa scuola due, tre, quattro medie diverse. La A è la “Media Vecchia”. Quella che fila bene. I professori più stimati se la leticano. Un certo tipo di genitori si dà da fare per metterci il bambino. La B è già un po’ meno e così via. Tutta gente onorata. Il preside e i professori non fanno per sé, fanno per la Cultura. Neanche quei genitori fanno per sé. Fanno per l’Avvenire del bambino. Farsi strada a gomitate non sta bene, ma se si fa per lui diventa un dovere sacro. Avrebbero vergogna a non lo fare. I genitori più poveri non fanno nulla. Non sospettano nemmeno che queste cose esistano. Anzi sono commossi. A tempo loro in campagna c’era solo la terza. Se le cose non vanno, sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi.
Gli altri, quelli che hanno in odio l’uguaglianza, quelli che “scelgono” la sezione migliore, l’insegnante migliore, non sono necessariamente genitori conservatori, reazionari, di destra, sono anche genitori progressisti, che si alleano con insegnanti progressisti per costruire una comunità autoeducante ideale (non dimentichiamoci che proprio in omaggio alla Lettera, paradossalmente, in molti danno vita a scuole sperimentali che separeranno, inevitabilmente, i genitori “servili” da quelli più attivi e consapevoli).
Un anno dopo la pubblicazione della Lettera, nel 1968, nella prefazione al libro di Albino Bernardini Un anno a Pietralata Gianni Rodari scrive, certo riflettendo su quanto scritto a Barbiana:
Accade abbastanza spesso di riscontrare una contraddizione profonda tra quelle che un uomo chiama “le sue idee” e il suo comportamento quotidiano, la sua concezione dell’attività che svolge. Si può essere, mettiamo, “progressivi” in politica e “reazionari”, se si è insegnanti, a scuola. Si può credere nella necessità che le classi lavoratrici si elevino fino alla direzione dello Stato, nella necessità di educare in un certo modo il sottoproletariato, e poi, trovandosi di fronte i figli dei lavoratori e i figli dei sottoproletari, trattarli con gli schemi tradizionali della disciplina, del dogmatismo, eccetera. Trasformare il proprio lavoro per riuscire a svolgerlo in modo coerente con i propri princìpi richiede sforzi.
Al professore, alla professoressa della Lettera, che non a caso è una progressista, paiono rivolte le riflessioni di Rodari: si può essere progressivi in politica e reazionari a scuola. Valutare l’ignoranza, la maleducazione, la marginalità, come uno stigma insuperabile per cui se Franti entrerà a far parte della comunità scolastica i suoi genitori ne resteranno esclusi, sempre. Ma chi fissa le regole di questa comunità? Chi se non gli stessi insegnanti e i genitori buoni, quelli che agli insegnanti assomigliano di più, come scrivono i ragazzi di Barbiana?
Pochi anni dopo la pubblicazione di Lettera a una professoressa, nel 1974, i decreti delegati formalizzano la partecipazione dei genitori alla vita scolastica. Don Milani non c’è più, è morto un mese dopo la pubblicazione del libro, non può dunque vedere quanto, anche grazie al suo impegno, qualcosa sia cambiato a livello legislativo nell’organizzazione scolastica. Ma poi, quello dei decreti delegati è un cambiamento reale che corrisponde alle richieste dei ragazzi di Barbiana? O molto più spesso sono i genitori “sbagliati” che entrano a scuola: quelli ben educati insomma, quelli che prendevano la parola già da anni, quelli che non erano mai stati zitti, come il babbo di Gianni.
I genitori entrano a scuola a due a due, in consigli di classe dove sono necessariamente minoranza, dove si chiede loro di esprimersi su fatti marginali della vita scolastica, dove sicuramente nessuno ha intenzione di condividere con loro ragionamenti sulla didattica, sulla valutazione, sugli esami. Eppure, subito, nella gran parte dei casi producono una reazione di antipatia. Scrive Gianni Rodari in un bell’articolo che fotografa il primo incontro fra genitori e insegnanti negli organi collegiali:
Io sono diventata allergica ai genitori”, ci confida senza mezzi termini l’amica professoressa. Per il momento, e per me, il solo risultato dei decreti delegati è questo: che ormai, quando debbo incontrarmi con dei genitori, sono presa da una specie di orticaria morale, irresistibile”. […] A questa “allergia” corrisponde sull’altro fronte, quasi per una legge fisica, una reazione uguale e contraria. “Con questi insegnanti”, dichiara l’amico presidente di un consiglio di circolo, “non c’è niente da fare. Hanno più spine di un istrice. Ignoranti, presuntuosi, attaccati alle loro abitudini, ai pregiudizi di casta, ai privilegi del sovrano assoluto. Appena apri bocca ti beccano, dall’alto, dal basso, della loro cosiddetta esperienza. Provinciali, retrogradi, pettegoli, personalisti. Non ci si intende. L’idea che la scuola debba diventare qualcosa di radicalmente diverso da ciò che è sempre stata non li penetra per nulla. Noi genitori dovremmo star lì solo per farci spiegare da loro le cose. Sempre col permesso del signor direttore.
Eppure, il rapporto fra genitori e insegnanti è la metonimia perfetta del rapporto fra scuola e società, se l’incontro fallisce, fallisce il progetto di una scuola compiutamente democratica. Questo è quello che sembra dirci don Lorenzo Milani, e che oggi si fa tanta fatica ad accogliere, continuando tuttavia a non leggere la Lettera per quello è, ovvero un “invito” ai genitori a organizzarsi.
Riferimenti bibliografici
P. Baldelli, La scuola di Barbiana, in “Il Giornale dei Genitori”, luglio-settembre 1967.
Don L. Milani, Tutte le opere, Edizione diretta da A. Melloni a cura di F. Ruozzi, A. Carfora, V. Oldano, S. Tanzarella, Mondadori, Milano 2017.
V. Roghi, La lettera sovversiva, Laterza, Bari-Roma 2017.