Pubblicato a Parma nell’estate del 1994, Dodici donne costituisce uno degli esiti estremi della polimorfica opera di Maurizio Grande ed ospita una densissima meditazione dell’autore attorno al «mito» del femminile plasmato dalla letteratura drammatica. Interrogando la fenomenologia della tragedia cristallina della donna, Grande analizza qui alcune tra le più esemplari manifestazioni dell’«enigma» del tragico femminile al fine di indagare i modi e le forme del suo configurarsi.

Una volta delineate le coordinate interpretative essenziali all’interno di due brevi capitoli introduttivi, il testo sviluppa la sua indagine attraverso dodici studi autonomi ma strettamente interrelati, incentrati ciascuno sull’analisi di un personaggio ritenuto a suo modo paradigmatico: Grande sceglie appunto di esaminare dodici «personaggi femminili della letteratura drammatica» da lui selezionati in virtù del loro costituire altrettante «incarnazioni perenni del mito della donna» ideate «da autori assai diversi fra loro, ma egualmente ossessionati dall’enigma del femminile» (Grande 2010, p. 9). Più ancora che dodici personaggi, perciò, le donne di Grande costituiscono a ben vedere – precisa lo stesso autore – dodici figure, «immagini della femminilità […] che compendia[no] e trascend[ono] al tempo stesso la singolarità dell’individuo», dodici “eroine eponime” collocate all’origine di altrettante stirpi di «caratteri» che attualizzano nel loro «complesso di varietà specifiche» la «figura-madre che» ne «compendia i […] tratti genetici» (ivi, pp. 9-10).

«Come ogni costruzione potente, anche il mito dell’enigma del femminile nasce», si legge nell’introduzione del saggio, «nell’ambivalenza dell’attrazione e della repulsione, della luce e della tenebra» (ivi, p. 10). Alla scaturigine di quel “mito della donna” che osserva realizzarsi in molteplici “figure del destino” Grande intravede dunque quel misto di soggezione e morbosa fascinazione caratteristico dello sguardo di chi osserva da lontano un oggetto che sente come “altro”. È proprio al «fantasma della differenza», infatti, che egli riconduce quel processo di mitificazione dell’alterità che prende origine dal sentimento de «l’Altro come mistero» (ivi, p. 9). Fin dalle primissime pagine risulta immediatamente chiaro quanto il carattere di radicale, irriducibile “alterità” attribuito a queste “figure del destino” costituisca un elemento nodale per l’inquadramento critico di quel “mito” che in esse trova dodici «possibili attualizzazioni» (ibidem). È infatti proprio il sopracitato “fantasma della differenza” a costituire – riconducendo alla «divisione dei sessi l’origine della separatezza dei ruoli e dei linguaggi, dei valori e delle pratiche simboliche» (ibidem) – il germe dell’enigma che Grande si propone di sciogliere e la cui identità si configura con tutta evidenza a partire dalla contrapposizione rispetto a quello che il testo propone come il suo opposto complementare: l’universo “maschile”.

Dai capitoli introduttivi fin dentro ciascuna delle dodici analisi, il volume di Grande risulta in effetti integralmente attraversato da coppie di termini tra loro antitetici, declinazioni variegate di un’unica originaria dicotomia, quella dei due poli contrapposti della potenza femminile e del potere maschile. Opponendo in modo sistematico e reiterato il «principio materno (dionisiaco e sensuale-universale)» a quello «paterno (apollineo e legiferatore del limite)» (ivi, p. 37), o l’universo oscuro e “lunare” del femminile a quello maschile, “solare” e diurno, la lettura che l’autore qui costruisce del “mito del tragico femminile” assume in sostanza le sembianze di una «ricognizione della potenza fatale della donna che si contrappone al potere simbolico dell’ordine maschile» (ivi, p. 14). Definito esclusivamente per differenza, in contrasto con quello che si configura come il suo radicale antagonista, l’enigma del tragico femminile risulta – dall’analisi di Grande – indissolubilmente legato allo sguardo “altro” che lo descrive e gli dà consistenza, secondo una prospettiva che emerge peraltro inequivocabilmente dalle scelte lessicali operate dall’autore: all’idea stessa di “enigma” e di “mistero” è infatti sottesa l’estraneità dell’osservatore rispetto all’oggetto osservato, il quale risulta da lui separato da una distanza percepita come incolmabile. Pur dando forma ad un insieme dal carattere marcatamente eterogeneo, dunque, le dodici donne di Grande appaiono tutte egualmente riconducibili ad un’unica entità costitutivamente contrapposta a quella definita “maschile” nei cui confronti non è prevista alcuna contaminazione o relazione dialettica. È pertanto anzitutto nel carattere deterministico di questo binarismo che si misura la natura “fatale” di queste figure che paiono tutte ugualmente vincolate – per quanto diverse – ad un unico, inesorabile destino: quello dell’impossibilità assoluta di negoziare con la pulsione di morte che si presume insita nella loro identità muliebre, di prescindere dall’ontologica «irriducibilità della donna alla Legge» che, secondo l’autore «il tragico femminile mostra» (ivi, p. 14) in modo inequivocabile.

Imbrigliando i personaggi in un giogo letale che impedisce loro di compiere qualsiasi movimento, il meccanismo descritto poc’anzi sembra di fatto corrispondere a quella che Roberto De Gaetano definisce l’«inesorabilità del vincolo tragico», a quella sottrazione – tipica della tragedia – dell’azione alla sua libertà che conduce l’eroe a «“non poter far altrimenti”», vittima di «un dover essere che nega la vita» (De Gaetano 2024, p. 22). «Nella tragedia, infatti», osserva Giuseppe di Giacomo nella sua introduzione alla Teoria del romanzo di Lukács, «non si dà alcun rapporto di conciliazione tra l’assoluto e il particolare, tra l’essenza e l’esistenza, perché il realizzarsi dell’essenza – che costituisce il compito etico della tragedia […] – richiede l’annullamento dell’esistenza» (Di Giacomo 1994, p. 11). Come private della dimensione singolare, “particolare” della loro “esistenza”, le dodici donne di Grande sembrano infatti ridotte a dodici creature della pulsione destinate a soccombere inesorabilmente alla “legge della massima pendenza” della loro femminilità.

Postulata la costitutiva fatalità di queste “figure del destino”, Grande prosegue distinguendo due possibili modalità del suo manifestarsi illustrando la differenza tra la «fatalità di una natura […] che impone all’Altro una deviazione nell’esistenza a causa di un incontro rovinante» e «la fatalità di un Destino che fa di una esistenza individuale l’Opera dell’Altro» (Grande 1984, p. 11). Da un lato, dunque, una Donna-Destino che «travolge l’esistenza di chi la incontra» (ibidem) trascinandola nell’abisso, dall’altro una Donna-Destinante che si fa «artefice della vita dell’Altro» (ivi, p. 13) tessendone meticolosamente la trama: Elettra – emblema della «donna come cristallo di morte» (ivi, p. 25) – e Aracne – instancabile filatrice «di destini maschili senza scampo» (ivi, p. 24). «Il senso e il valore dell’opposizione» tra queste due forme della fatalità femminile – sottolinea lucidamente De Gaetano, attento esegeta dell’opera di Grande – «non si restringe alla coniatura dei due termini in questione, ma si inserisce in un discorso sul tragico che ne individua alcuni tratti distintivi» (De Gaetano 1998, p. 123).

L’intento dell’autore è infatti anzitutto quello di delineare una fenomenologia del tragico femminile al fine di rintracciarne i caratteri peculiari e fornirne così un complessivo inquadramento: è per questa ragione, nota sempre De Gaetano, che il «piano teorico» configurato in apertura viene subito impiegato come «operatore analitico di alcuni dei grandi personaggi femminili della letteratura drammatica» (ivi, p. 125). Le categorie proposte nei primi due capitoli vengono infatti immediatamente messe alla prova, e il paradigma dapprima definito si tramuta presto in un dispositivo atto all’analisi delle dodici più volte citate “figure del destino”, «ora elettridi ora aracnidi – e talvolta segnate», come scrive Roberto Tessari, «da una qualità tragica dove il patente esplicitarsi o del primo o del secondo tratto essenziale non esclude la più o meno occulta praesentia agens del suo corrispettivo polarmente opposto» (Tessari 1998, p. 141).

Esauritisi i due densi capitoli introduttivi, il saggio di Grande si addentra dunque nel suo corpo vero e proprio, costituito come si è detto da dodici studi conchiusi attraverso i quali l’autore si propone – suggerisce ancora Tessari – «di evocare le persone essenziali di un» ipotetico «Pleroma del Femminile» (ivi, p. 133). Le dodici figure analizzate, infatti, scaturiscono da contesti volutamente variegati che sembrano indicare, spaziando dalla Grecia del Terzo Secolo avanti Cristo alla Francia di metà Novecento, le molteplici direttrici di un moto complessivamente centrifugo. Nonostante questa apparente disorganicità, però, sembra a ben vedere che Grande intenda qui perlustrare stagioni diverse della storia della letteratura teatrale al fine di saggiare le moltissime rime che le mettono in dialogo e di misurare così le sorprendenti analogie tra le loro rispettive rappresentazioni del mito del tragico femminile.

Le dodici donne di Grande sono infatti i personaggi di dodici storie tra loro differenti, concepite da autori altrettanto differenti le cui opere riflettono mentalità e culture differenti, ma i tratti costitutivi dell’enigma del femminile di cui quelle donne rappresentano una concreta manifestazione risultano legati da una sostanziale coerenza. Alla dimensione centrifuga che caratterizza la rosa degli oggetti dell’indagine corrisponde allora il carattere decisamente centripeto assicurato al testo dagli innumerevoli tratti comuni che legano in modo patente questi oggetti. È dunque proprio attraverso questo duplice movimento che l’autore riesce infine a dimostrare la continuità di taluni elementi nella storia della letteratura drammatica e ad affermare il loro essere propriamente connaturati alla declinazione femminile del dispositivo tragico.

L’analisi di Grande prende avvio dallo studio della figura eponima di Elettra e di quel «disgusto per l’infima commedia della sopravvivenza» (Grande 2010, p. 27) all’origine del suo fatale «orrore per la natura e per la femminilità» (ivi, p. 29) incarnate dalla madre Clitemnestra. Ad una “madre onnipotente”, invece, è dedicato il secondo capitolo: si tratta della pirandelliana Anna Luna, protagonista de La vita che ti diedi, che, incapace di suggellare la morte del figlio «nel sarcofago del dolore» (ivi, p. 44), «eternamente dà la vita finché ha vita» (ivi, p. 50) forte di un demoniaco impeto creatore. È un’altra figura materna a rappresentare per Grande il vero e proprio paradigma di quel fatale «conflitto fra la potenza della donna e il potere dell’uomo» che «ha luogo sulla linea di demarcazione che separa (e unisce) il reale e il simbolico» (ivi, p. 119): è Filumena Marturano, la cui maternità “assoluta” troverà il suo perfetto contraltare nel personaggio di Rita Allmers, oggetto dello studio successivo. Protagonista de Il piccolo Eyolf di Ibsen, Rita Allmers ordisce infatti la sua tela fatale, scrive Grande, con l’intento di «incorporare l’uomo» che ama «recidendo il suo legame con il figlio» (ivi, p. 137) e riaffermando così, tragicamente, la sua identità di donna «aldilà della maternità» (ivi, p. 146). L’ultima madre fatale esaminata da Grande è la protagonista de Il malinteso di Albert Camus, il cui «stupefacente intreccio “metafisico”» illustra secondo l’autore «la parabola della tragicità dell’esistenza» (ivi, p. 191).

Altro oggetto di questa analisi è la Salome di Wilde, la cui «castità corrotta dal desiderio genera», a detta di Grande, «una risposta di morte, la necessità di distruggere ciò che non si doveva desiderare» (ivi, p. 60). Un’analoga attrazione fatale travolge anche Pentesilea, protagonista dell’omonima tragedia di Kleist: ferina creatura della pulsione, Pentesilea è mossa infatti secondo l’autore da «una passione insana, una voluptas senza rimedio perché al di là di ogni oggetto, di ogni possibile Altro» (ivi, p. 162). Questo stesso alone di morte – che corteggia la bellezza, scrive Grande, secondo «uno dei più indistruttibili miti maschili» – avvolge irrimediabilmente anche il personaggio di Elèna Andrèevna dello Zio Vanja di Čechov, il cui destino non è dissimile a quello della Lulu di Wedekind, «puro significante della femminilità come fatum», che non fa che «inoculare nelle sue vittime il secretum della bellezza che rende insonni» (ivi, p. 81).

Un’altra categoria di figure del destino presa in esame da Grande è quella delle aracnidi “moderne”, tra le quali si annoverano Hedda Gabler, protagonista dell’omonimo dramma di Ibsen, e La Contessina Julie di Strindberg. La prima è caratterizzata, secondo l’autore, da un «aracnismo insidiato dalle “mezze misure” della vita borghese» (ivi, p. 97), emblema di quella “degenerazione” moderna del tragico fondata su «un conflitto profondo tra l’Io e gli ideali dell’Io» (ivi, p. 99). La seconda abita invece un dramma che, documentando il «tragico dissolversi delle individualità nella sordidezza di un’esistenza senza destino», costituisce secondo Grande il vero e proprio «manifesto della “tragedia naturalista”» (ivi, p. 177), una «tragedia claudicante» che attesta la «degradazione» (ivi, p. 179) moderna del tragico in forme parodistiche.

«L’estrema incarnazione dello spirito aracnide» è costituita però, secondo il percorso critico costruito dall’autore, dalla Nina di Strano interludio di O’Neill, la quale «conclude l’arco evolutivo di questa famiglia di donne “operose” che tessono l’altrui destino» (ivi, p. 199). Non è per caso, dunque, che la figura di Nina chiude il corpus delle dodici donne prese in esame: in lei «si può» infatti «scorgere», scrive Grande, «la cicatrice che unisce (e separa) le due metà dell’essere femminile: l’elettride e l’aracnide», un «mostro a due teste […] che signoreggia sulla natura e ingaggia un duello fatale con Dio-Padre» (ivi, p. 200). Sintesi ultima delle due componenti che fondano questa singolare ontologia del tragico femminile, Nina compendia allora gli elementi cardinali della proposta teorica di Dodici donne: da elettride, ella «trascende il fatum naturae in una legislazione autoctona della morte o della vita», al contempo però, da aracnide, «recide la dipendenza della donna dalla natura e dalla Legge, tessendo il destino altrui come opus fatale» (ibidem).

Fin da questa sintetica ricognizione delle varie articolazioni interne al saggio di Grande appare immediatamente chiaro come esso si relazioni in maniera costante e feconda con l’opera di un interlocutore privilegiato, il Gilles Deleuze dei due volumi sul cinema. A questo proposito, è bene evidenziare quanto Maurizio Grande sia stato – lo ricorda affettuosamente Roberto De Gaetano nella sua introduzione a Il cinema in profondità di campo – uno degli studiosi italiani che più tempestivamente si sono occupati, già dalla metà degli anni ottanta, de L’immagine-movimento: oggetto di uno dei corsi universitari tenuti da Grande a La Sapienza, il primo dei due saggi deleuziani sul cinema appare infatti come un produttivo punto di riferimento per la complessa indagine sulle forme del tragico femminile che si sta qui analizzando.

A fornirci immediatamente la misura del debito contratto da Dodici donne nei confronti della riflessione di Deleuze sulle immagini cinematografiche sono anzitutto le scelte lessicali operatevi da Grande. Il volume è infatti costellato di termini mutuati da L’immagine-movimento e, ancor più nello specifico, dal capitolo dedicato al concetto di “immagine-pulsione” con il quale il saggio tutto dialoga intimamente. Nell’analizzare, ad esempio, il personaggio di Lulu, Grande descrive l’oggetto della sua «brama primordiale» (ivi, p. 89) come «il sostituto» di una sua «mancanza originaria» (ivi, p. 84) e afferma che entrare nel suo «grande orlo» significhi essere risucchiati «in un territorio originario nel quale vige la “legge della massima pendenza”» (ivi, p. 89). In modo non dissimile, il personaggio di Pentesilea è descritto da Grande in tutta la sua «ferinità» (ivi, p. 163), come un essere dominato da una «violenza originaria implacabile» (ivi, p. 167) capace di fargli «dilaniare, smembrare, inghiottire l’avversario» (ivi, p. 176).

Dal momento che la sfera lessicale è, come è ovvio, del tutto inscindibile da quella semantica, sembra più che naturale rintracciare un debito verso Deleuze anche nell’articolazione stessa dei pensieri che Grande propone nelle pagine del suo Dodici donne. Potremmo infatti affermare, servendoci proprio delle parole del filosofo francese, che le aracnidi grandiane siano dotate di «un’intelligenza diabolica» (Deleuze 1984, p. 149) capace di generare una «violenza statica» che «ha come via d’uscita» per il personaggio «solo un rivoltarsi contro se stesso» (ivi, p. 165), mentre le elettridi, feroci «animali umani» (ivi, p. 149), appaiono legate dalla tragica esigenza di impadronirsi, fagocitandolo, «di tutto quanto» riescano a divorare «in un ambiente dato, e di passare» poi, instancabilmente, «da un ambiente in un altro» (ivi, p. 154). Le dodici figure analizzate da Grande sembrano in effetti dodici creature di quel «mondo originario» descritto ne L’immagine-movimento, «al contempo inizio radicale e fine assoluta» che «fa convergere tutte le pulsioni in una grande pulsione di morte» (ivi, p. 149).

Aldilà di questi prestiti più puntuali, la stretta relazione che intercorre tra il testo di Grande e l’opera di Deleuze è denunciata anche da aspetti ulteriori, ascrivibili piuttosto all’impostazione generale del volume. Come nota De Gaetano nella sua già citata introduzione a Il cinema in profondità di campo, infatti, è proprio guardando a Deleuze che Grande muove qui «dalla sistematicità delle architetture semiotiche» che aveva caratterizzato la prima fase del suo lavoro al sempre maggiore «dinamismo concettuale» (De Gaetano 2003, p. 36) tipico invece delle sue opere più tarde. Altrettanto deleuziana sembra in ultimo la libertà con cui l’autore di Dodici donne contamina paradigmi interpretativi differenti, operando una costante commistione tra critica e teoria, filosofia e psicoanalisi: muovendosi con una tale assoluta disinvoltura da una prospettiva d’indagine all’altra, Grande fa emergere il carattere “sovversivo” della sua singolare pratica intellettuale i cui contatti con quella propria del collega francese paiono per molti versi davvero flagranti.

È proprio questo che doveva avere in mente Emilio Garroni quando in un’intervista apparsa postuma su “Filmcritica” descriveva Grande – di cui era stato un tempo il maestro – come «non solo uno studioso notevole, ma anche» uno «scrittore di prim’ordine, al di là di ogni divisione disciplinare» (Fasoli 2021). Il volume che si è appena tentato di analizzare costituisce in questo senso un caso del tutto paradigmatico dal momento che Grande dà lì sfogo alla sua vivace “immaginazione saggistica” punteggiando la trattazione analitica con aperture di respiro propriamente letterario, luoghi della piena manifestazione di un estro creativo capace di travalicare i rigidi confini della filologia per librarsi liricamente in volo.

Riferimenti bibliografici
D. Fasoli, La visibilità della critica. L’ultima intervista a Emilio Garroni, in “Filmcritica”, 11 agosto 2021.  
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984.
G. di Giacomo, Introduzione. Etica ed estetica nella filosofia del giovane Lukács, in G. Lukács, Teoria del romanzo, Pratiche Editrice, Parma 1994.
R. De Gaetano, Ejzenštejn, Deleuze, e le vie della teoria in Italia, in Maurizio Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003.
Id., La teoria o dell’invenzione concettuale, in Id., a cura di, La visione e il concetto. Scritti in omaggio di Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998.
Id., Le immagini della commedia, Marsilio, Venezia 2024.
R. Tessari, Salome e Lulu: una melagrana, e una maschera. Due donne, tra le Dodici di Maurizio Grande, in R. De Gaetano, a cura di, La visione e il concetto. Scritti in omaggio di Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998.

Maurizio Grande, Dodici donne. Figure del destino nella letteratura drammatica, prefazione di Roberto Tessari, Bulzoni, Roma 2010.

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