Se per i sociologi marxisti la cultura dominante è la cultura della classe dominante, un’arte media è l’arte delle/per le classi medie. Ma quando e come la complicata tecnologia fotografica d’inizio Ottocento (dagherrotipi, calotipi e così via sperimentando) è diventata quella pratica di massa che ha improntato la cultura visuale del Novecento e poi – sotto la nuova forma digitale – del Duemila? Le storie della fotografia ci suggeriscono la data del 1888, quando l’immissione sul mercato della compatta Kodak va aldilà della semplice fornitura di una macchina con un rullino da cento pose: lo slogan “You press the button, we do the rest” significa che nel prezzo di 25 dollari sono compresi anche sviluppo e stampa. Inizia così l’epoca della produzione amatoriale (dilettantesca) delle immagini tecnologiche, mentre prosegue e si precisa una fotografia professionale (dalla ritrattistica al fotogiornalismo – che negli anni trenta si avvantaggia delle 35mm Leica e Contax – alla visualizzazione pubblicitaria) e una fotografia variamente “artistica”, opera di gruppi organizzati attorno a fotoclub e riviste (citiamo solo Camera Work di Stieglitz, che nel periodo 1903-17 sposta l’asse della ricerca americana dal pittorialismo di Steichen alla straight photography di Paul Strand).
Nel 1964, quando esce Gli strumenti del comunicare di Marshall McLuhan, il capitolo sulla fotografia s’intitola “Il bordello senza muri”: come ne Il balcone di Genet (1956), la società dell’immagine è votata alla prostituzione generalizzata, di cui il divismo costituisce solo la punta dell’iceberg. Ma questa intuizione trova riscontro in ricerche sociologiche sul campo? La risposta arriva l’anno successivo, quando un’indagine commissionata dalla Kodak-Pathé ed effettuata dall’Ecole pratique des hautes études per ben tre anni accademici (dal 1961/62 al ‘63/64) sotto la direzione di un Pierre Bourdieu ancora trentenne, si trasforma in un nutrito “saggio sugli usi sociali della fotografia”.
Oltre a Bourdieu – che all’epoca sta ancora elaborando i suoi concetti più famosi tipo “habitus” e “distinzione” e non ha ancora pubblicato le foto effettuate per la sua ricerca sull’Algeria – collaborano fra gli altri un trentenne Robert Castel (futuro autore di L’insicurezza sociale) e un ventenne Luc Boltanski (futuro autore di Il dolore degli altri ed attuale direttore dell’EHESS). La ripubblicazione in italiano di Un’arte media (Bourdieu 2018) è un’occasione per ritracciare la distanza (cioè la continuità e la rottura) con una generazione di studiosi nata quando ancora era nell’aria l’eco di Walter Benjamin (si ricordi che l’edizione Einaudi di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è del 1966, dunque in ritardo di un trentennio rispetto alla Francia).
Nella prima parte del volume, due saggi di Bourdieu provano a costituire come oggetto di studio per la sociologia tanto la pratica della fotografia quanto il significato dell’immagine fotografica, in un momento storico in cui in Francia vengono venduti 845.000 apparecchi all’anno e si calcolano più di otto milioni di apparecchi in uso (cioè almeno uno ogni due famiglie). Se si parte dall’analisi della società contadina, dove i servizi ufficiali di matrimonio esistono fin dai primi del Novecento e quelli della prima comunione dagli anni trenta, si può argomentare che il significato e il ruolo della fotografia sono funzione del significato sociale della festa: «Il bisogno di fotografare non è altro, nella maggior parte dei casi, che un bisogno di fotografie» (Bourdieu 2018, p. 62); le immagini delle occasioni rituali, documentando la coesione del gruppo familiare e parentale, diventano da un lato un lascito per le nuove generazioni (la lettura dell’album di famiglia come “corso di scienza genealogica”, “sociogramma” del gruppo) e dall’altra un mezzo di scambio comunicativo (invio delle foto ai parenti all’estero, come forma di aggiornamento sull’evoluzione del gruppo).
Ma anche negli ambienti urbani la pratica della fotografia è sostanzialmente produzione domestica di emblemi domestici: la distinzione tra fotografia professionale (da commissionare all’esterno) e fotografia amatoriale (prodotta autarchicamente senza problemi estetici che non siano quelli di un realismo referenzialista) non è altro che la distinzione tra le occasioni ufficiali (classicamente il matrimonio) e i momenti più privati (anche di carattere festivo, come i viaggi). Ma la pratica occasionale resta sempre chiusa nell’alveo del fotografabile (che coincide con ciò che deve essere fotografato), e dunque le varianti della funzione archetipa non giungono fino ad una pratica “devota”, “fervente”, “intensa”, “fanatica”, cioè ad una fotografia a finalità estetica, con ambizioni artistiche; quando questo succede, come ad esempio con i soci dei fotoclub, si tratta perlopiù di devoti/devianti: lo scatto gratuito è un hobby per figli di papà dell’era “leicale”, quella fotografica è una macchina per celibi.
Nella seconda parte di Un’arte media, i vari collaboratori affrontano le pratiche che si allontanano dalla vocazione primaria della fotografia per andare verso usi professionali e sottosistemici o, al contrario, completamente soggettivi e “perversi” (la pornografia, il voyeurismo). Boltanski descrive il fotoreporter come oscillante fra la serendipity dell’istante decisivo (foto-choc e relativi problemi deontologici) e tutti i meccanismi costruttivi che sfociano nella retorica dell’impaginazione; per cui conta poco affidarsi all’analisi strutturale della singola immagine (la stoccata è al Barthes “mitologico”) ed è più proficuo indagare le norme redazionali di specifici periodici.
Anche il fotografo pubblicitario, nell’analisi di Gérard Lagneau, è costretto perlopiù a seguire la sociologia implicita applicata dai “persuasori occulti” delle agenzie; la sua specificità è una forma di compromesso tra il realismo della presentazione informativa e la potenza tentatrice supposta nella simbolizzazione esaltante dell’oggetto. Quanto agli “esteti” o “virtuosi”, come li chiama Jean-Claude Chamboredon, in genere teorizzano un’estetica decisionale (fino all’errore intenzionale, la fautographie di Man Ray) proprio perché coscienti che l’arte meccanica non è un’arte legittima; anche i virtuosi consacrati, in mancanza di una critica fotografica pubblicamente riconosciuta, non possono che rapportarsi a un gruppo di legittimità (come quelli costituiti dai vari “ismi” delle avanguardie artistiche). In definitiva, nessun fotografo è un’isola, ma sempre l’espressione di un gruppo sociale con le sue regole anche estetiche.
Mezzo secolo dopo, quando ormai la familiare macchina fotografica è stata sostituita dall’individuale smartphone e la “pubblicazione” delle immagini ha la velocità delle reti telematiche globali, qual è la fotografia della fotografia? La professionalità dei fotoreporter sembra minacciata dal citizen journalism inaugurato nel 2005 (attentati di Londra) appena dopo l’attivazione della piattaforma Flickr; ma, giustappunto, il fenomeno non riguarda tanto il numero e la qualità delle immagini prodotte quotidianamente, ma l’esistenza di un mondo virtuale in cui l’estetica popolare del sociogramma si ripropone come conversazione iconica su Instagram. L’immagine digitale condivisa sui social – senza autorialità, senza convalida – è la rivincita delle masse contro le pretese “auratiche” dei professionisti:
La storia è testarda: la foto è stata inventata dagli amatori per gli amatori, che hanno la stessa legittimità di esprimersi a proprio nome di coloro che ne hanno fatto un commercio. Ampliando sempre più la capacità di produrre e diffondere immagini, la rivoluzione digitale si inserisce nella rigorosa tradizione del programma originario della fotografia. (Gunthert 2016, p.79).
Nell’album di famiglia della sociologia dei media, la fotografia di Bourdieu sta fra quella di McLuhan e quella di Guy Debord: l’arte media è il morphing con cui siamo passati dal bordello senza muri alla società dello spettacolo.
Riferimenti bibliografici
P. Bourdieu, Un’arte media. Saggio sugli usi sociali della fotografia, Meltemi, Milano 2018.
A. Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, Contrasto, Roma 2016.
B. Newhall, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 2008.