Non è forse ogni disegno ciò che decidiamo di fare di una macchia? E, correlativamente, potrebbe darsi il caso che la coscienza sia la forma che tentiamo di dare all’inchiostro dell’inconscio? Simili a questi sono gli interrogativi che apre la lettura di Disegnare, la formula di Freud, prezioso saggio di Gianluca Solla uscito in queste settimane per Orthotes. L’assidua frequentazione di Freud con il disegno sembra scaturire, non a caso, dall’impulso primigenio a fare della macchia una forma, dell’inchiostro uno scarabocchio, dell’informe un segno. Solla rievoca, in apertura del volume, l’episodio di una lettera scritta da Freud alla fidanzata Martha nell’agosto del 1882: «All’improvviso però la penna gli cade di mano e l’inchiostro sporca il foglio. A contatto con la carta la goccia si fa macchia. […] Freud si guarda bene dal gettare la lettera. Non solo: fa della macchia l’inizio di un disegno» (Solla 2022, p. 7). È in questa operazione – grafica, espressiva, poetica –, che Freud risemantizza un segno, che, da non-significante, rivela il suo misterioso potere di sprigionare una forma nascosta. Solla rifiuta di seguire la via pur legittimamente percorribile dell’interpretazione psicanalitica del gesto “pittografico” e delle sue implicazioni, per virare verso il paradigma indicato dalla stesso Freud in un’altra lettera giovanile, questa volta indirizzata ad Eduard Silberstein: «”Dare artisticamente forma al vissuto» (ivi, p. 8). L’avvertenza è quella di non far ricadere il “vissuto” sotto la fortunata categoria dell’Erlebnis, seconda la moda del tempo, ma di ripensare l’esperienza “artisticamente”, consegnandola al destino plastico e mutevole della forma.
Come si può immaginare, l’audacia del giovane Freud lo espone a un rischio, prima di tutto epistemologico, di cui pare tuttavia consapevole: inquadrare la psicoanalisi nel registro dell’immaginario, o, meglio, prevedere l’intreccio inestricabile di immaginario e simbolico, di fantasia e scienza, di visione e di osservazione, sgancia la nascente “scienza dell’inconscio” da qualsiasi tentazione positivista. Solla chiarisce bene come questa “logica del fantasma” o della fantasia fondamentale sia ciò che realmente disorienti il soggetto della razionalità cartesiana e lo faccia «girare a vuoto», dimodoché per esso «il reale non ha altra consistenza che in questa esigenza del fantasma» (ivi, p. 15). Viene qui spontaneo leggere questo ritaglio fantasmatico della soggettività nei termini dell’oggetto piccolo (a) lacaniano, ossia in una dimensione immaginaria che, cionondimeno, costituisce l’unica via d’accesso al Reale, poiché «non c’è altra entrata per il soggetto nel reale che non sia il fantasma» (Lacan 2013, p. 322). Di converso, «per un soggetto il reale non ha altra consistenza che in questa esigenza del fantasma, che lo reclama in quanto soggetto» (Solla 2022, p. 15).
Il “fantasticare” è quindi, nella ricostruzione di Solla, il dispositivo epistemologico di matrice estetica che accompagna l’impresa freudiana dall’epistola a Wilhelm Fließ del 25 maggio 1895 (lo stesso anno del seminale Progetto per una psicologia scientifica) al saggio su Analisi terminabile e analisi interminabile del 1937. Se nella lettera a Fließ “fantasticare” (Phantasieren) era collegato sequenzialmente ai verbi “tradurre” (Übersetzen) e “divinare” (Erraten), nel saggio del ’37 lo ritroviamo in associazione con speculare (Speculieren) e teorizzare (Theorisieren). Freud stabilisce così un’opzione di metodo per la psicoanalisi cui mantiene evidentemente fede lungo il suo percorso teorico, non rinunciando, nell’investigazione dell’inconscio, né alla dimensione speculativa e congetturale, né a quella divinatoria e onirica. Il soggetto del desiderio, ancorato al tempo perduto dell’oggetto piccolo (a), alla dimensione “hauntologica” e spettrale del fantasma, non può non essere ricercato nella visione, nel sogno, nelle immagini che infestano la casa stregata dell’inconscio. È lo stesso dominio fantasmatico de L’interpretazione dei sogni, la logica combinatoria della condensazione (ivi, p. 18) che è sottesa sia al disegno sia al sogno.
Il disegno (e così lo schizzo, lo scarabocchio) non è perciò riconducibile alla logica identitaria della rappresentazione, ma a quella differenziale e deleuziana del campo virtuale-intensivo: è proprio in Die Traumdeutung che Freud assegna ciò che è oggetto della «nostra percezione interna» al dominio del «virtuale» (Freud 1980, p. 556). Si delinea così una costellazione “fantastica” di immagini psichiche che, per così dire, inventano la forma del reale, siano esse sogni, visioni, disegni. Il disegno «partecipa allo stile dell’invenzione» (Solla 2022, p. 19), non riproduce le cose, ma le reinventa sotto forma di spostamenti e condensazioni, operando una riscrittura segnica del reale. Ciò vale, ovviamente, per i disegni clinici: dalla correzione “fallica” fatta dal piccolo Hans al disegno della giraffa abbozzato dal padre (ivi, p. 93), alla mappa cruciforme degli spostamenti randomici dell’Uomo dei topi (ivi, p. 119), o ancora al disegno del noce affollato di lupi bianchi eseguito da parte del Wolfsmann Sergej Pankëev (ivi, p. 151). Si tratta evidentemente, in questi disegni, di dare spazio a una dimensione unheimlich, “perturbante”, che però non preveda alcun tentativo di riportare lo strano sotto il mantello del familiare – un pericolo, questo, intravisto acutamente da Mark Fisher –, riconducendo piuttosto l’immagine al «Fuori dei processi a cui ogni vita soggettiva è rimessa» (ivi, p. 12).
Viene qui in mente il realismo onirico di Murakami Haruki: fuori dalla finestra, su di un albero, un uccello-giraviti; un dipinto inquietante, perduto e ritrovato dopo decenni in un sottotetto; un uomo che, in una misteriosa città alla fine del mondo, riceve l’incarico, squisitamente freudiano, di leggere i sogni. O, per allargare lo sguardo, il realismo magico di Wes Anderson: la sede del giornale The French Dispatch non è forse la casa in cui “l’io non è più a casa propria”, dove l’evento raccontato subisce tutti gli scivolamenti, le condensazioni e gli spostamenti resi possibili dall’esplosione dell’inconscio cinematografico (il noir, il fumetto, la Nouvelle Vague…)? Ma, seguendo l’avvertimento iniziale di Solla, sarebbe forse troppo facile rinvenire, dopo Freud, la diffusione di un’epidemia dell’immaginario. Era tutto già in Freud, nella sua logica delle sopravvivenze inconsce degli oggetti perduti – a volte, frammentariamente, ritrovati –, nel carattere processuale e temporale della vita psichica.
È in questo orizzonte del divenire, cui fa riferimento Solla nella sua ricerca della formula freudiana, che l’immagine disegnata si presenta come un registro dei mutamenti interiori, una sorta di “film d’animazione” dell’esperienza vissuta. Anche laddove Freud si affida a disegni-schemi, a configurazioni delle istanze e delle topiche dell’apparato psichico, lo scopo rimane quello di dare conto delle «connessioni e delle relazioni dei vissuti» (ivi, p. 11). Non troverei dunque in simili rappresentazioni schematiche, come in quella dedicata alle tracce mnestiche (ivi, pp. 71-74), un’analogia diretta coi grafi lacaniani. Come notato in diversi punti da Solla, siamo di fronte a un rapporto particolare del disegno col sintomo, da un lato, e con la parola, dall’altro. L’esercizio grafico per Freud è l’invenzione di una nuova lingua, di un inconscio strutturato lacanianamente come linguaggio, attraverso concatenamenti di forme e assemblaggi di segni che costituiscono il soggetto. In realtà, «un soggetto non si costituisce che in forza di questo bricolage» (ivi, p. 170), di questo assemblaggio di tratti, laddove per tratto si intende «un elemento di mobilità, che scorre dal letterale all’immagine» (ibidem). In questo esiste la possibilità di considerare i disegni del corpus freudiano (anche quelli realizzati dai suoi pazienti) arte, sia pure un’arte “in minore”, per il fatto di essere corollario di un’impresa scientifica o di uno sforzo clinico.
Un’ultima considerazione è per il significato “archetipico”, per così dire, di questa fascinazione freudiana verso il tratto disegnato, come rilevato da Solla citando l’importanza dell’iconografia biblica, egizia, greco-latina nella formazione di Freud (ivi, p. 11). Che dire, poi, dei disegni del Mosè di Michelangelo realizzati da un artista su commissione di Freud o forse dalla sua stessa mano? Attraverso di essi, nelle diverse angolazioni e nei particolari della statua, l’immaginazione “nutre il vedere, perché per vedere occorre allontanarsi dalla realtà vista immaginativamente” (ivi, p. 132). Dunque, il potere trasformativo delle immagini, dei (di-)segni, il loro atto di re-invenzione della realtà, di rimessa in circolo del vissuto nel turbine fantasmatico interiore. È tale la capacità che le immagini hanno di riattualizzare il passato e di rielaborarlo, compito che Freud affida precipuamente alla psicoanalisi. Il tratto disegnato (grafico, calligrafico, geroglifico…) è per Freud scrittura del resto e manifestazione dell’eccedenza, capace di sfuggire alla pretesa interpretativa del simbolico e di godere al di là di qualsiasi imposizione di significato. Siamo qui, forse, sulla stessa frontiera tra corpi e segni individuata da Lacan nei pittogrammi sino-giapponesi? Forse va qui intravista una dimensione Zen, per cui il disegno “evoca un luogo lasciato vuoto da qualsiasi significazione” (ivi, p. 20)? Senz’altro, il disegno, come l’ideogramma, non è mai una copia della cosa, ma è la sua trasformazione – è la metamorfosi dello sguardo. Niente è più lo stesso dopo essere stato immaginato. Niente è più lo stesso dopo essere stato disegnato.
Riferimenti bibliografici
S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere. Vol. III., Boringhieri, Torino 1980.
J. Lacan, La logica del fantasma, in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013.
Gianluca Solla, Disegnare, la formula di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.