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Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam (Mangini, Pisanelli, 2020).

Nella prima sala dell’esposizione Cecilia Mangini –  Visioni e Passioni: Fotografie 1952-1965, curata da Paolo Pisanelli e Claudio Domini al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma si trova un’installazione foto-video che porta il visitatore a contatto con una sola fotografia, ingrandita e duplicata al punto di ricoprire tre muri: una folla, fotografata da Cecilia Mangini a Rutigliano nel 1956. Il corpo (i corpi) popolare con il suo (loro) abito della domenica, schiena dritta, e visi concentrati rivolti alla fotografa. Decine di volti anonimi disposti a inabissare il loro sguardo nell’occhio dell’apparecchio: decine di sguardi in macchina del 1956, decine di occhi che interpellano il visitatore contemporaneo. Essere contemporaneo, non consiste forse, come scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo?, nel saper cogliere le luci del passato in grado di rischiarare l’oscurità del presente?

Al centro di una delle tre pareti, uno schermo replica questa stessa fotografia e la lavora con un montaggio di Matteo Gherardini: zoom in avanti isolando un viso, scivolamento verso un altro viso, poi un altro ancora, un fermo immagine, zoom indietro reintegrando a poco a poco sullo sfondo l’intero gruppo. E una colonna sonora che lascia percepire un vocìo, quindi la musica del Barbiere di Siviglia.  Ne deriva un rapporto tra il singolare e il plurale, o piuttosto tra l’individuo e la comunità che solo questo è in grado di istituire con gli altri intorno a sé e con i quali condivide egli stesso una stessa tensione esistenziale. Sin dall’inizio ad essere evocata è la questione di politico – il politico e non la politica – per riprendere la distinzione di un altro filosofo, Jacques Rancière. C’è in queste presenze enigmatiche – nessuna didascalia ad accompagnare la fotografia – come un’esigenza limpida: quella di avere un diritto di sguardo. Il diritto di guardare – è il senso corrente e giuridico della locuzione in francese: le droit de contrôler, de surveiller. Ma anche (capovolgendo lo sguardo): il diritto di essere visto – sarebbe questo il senso etico. Non essere allora semplicemente un figurante (dunque invisibile), ma attore (del gioco politico).

Sotto molti aspetti, questa fotografia può essere considerata una metonimia dell’opera fotografica e cinematografica di Cecilia Mangini, una delle poche donne fotografe negli anni ‘50 e la prima a realizzare dei film documentari in Italia. Tutti quegli uomini di Rutigliano cosa avranno pensato dell’essere catturati dall’obiettivo di una fotografa in un’epoca nella quale il posto ben visto per una donna poteva essere semmai quello di essere oggetto dello sguardo e a fortiori delle rappresentazioni. Nata nel 1927, cinque anni dopo la marcia su Roma, Cecilia Mangini aveva provato una grande fierezza quando, come tutte le “Piccole Italiane”, ma soprattutto come i ragazzi, aveva giurato di versare il proprio sangue per il Duce. Il fatto poi che l’esposizione abbia luogo all’EUR, quartiere di Roma concepito come una sorta di vetrina delle mitologie fasciste, non è privo di significato: poiché è proprio sotto quel regime che Cecilia Mangini si forma all’immagine, nei musei di Firenze, dove trasloca con la famiglia all’età di sei anni, sui libri di scuola che illustrano la mistica fascista, poi soprattutto nei Cineguf, cine-clubs universitari fascisti dove tra le maglie della censura riescono a passare anche dei film del Fronte popolare francese.

Poi sarà la volta del neorealismo. E la scoperta di un cinema che eserciterà una profonda influenza sulla sua opera, quello di Eisenstein, Vertov, Koulechov. Da un’invenzione all’altra, dunque. Contro l’ “invenzione [fascista] delle tradizioni”, così com’è stata definita dallo storico Eric Hobsbawm – ovvero quella manipolazione delle rappresentazioni solo volta a mascherare il reale, a forgiare, e soprattutto a simulare l’unità nazionale, la legittimità e il successo del regime – si tratterà piuttosto per Cecilia Mangini d’inventare,  proprio nel senso etimologico, retorico e archeologico del termine –  mettere in luce – quello che le rappresentazioni ufficiali o dominanti nascondono: tutti quegli Ignoti alla città, per riprendere il titolo del suo primo cortometraggio, il più puntuale adattamento nel 1958 del romanzo di Pasolini Ragazzi di vita, che sarà seguito nel 1961 da una variazione libera (sublime) sui ragazzi delle borgate di Roma: La canta delle marane.

Ma l’ingresso “professionale” della Mangini nel cinema si consumerà dapprima attraverso la scrittura – in particolar modo attraverso Cinema nuovo, rivista fondata e diretta da Guido Aristarco – e attraverso la fotografia, alla quale è interamente dedicata l’esposizione. Sospese al soffitto con dei fili trasparenti, e senza la distanza di una messa sotto vetro, le fotografie della seconda sala fluttuano nell’aria in una scenografia che gioca molto sul movimento: quello dei cartoncini oscillanti a seconda delle correnti d’aria, rivelandosi allo sguardo fronte/retro; quello fisico del visitatore libero di circolare tra queste immagini in movimento e che costruisce il suo percorso da una fotografia all’altra, ne afferra una per fermarla e fissarla un istante; infine quello, intellettuale, che risulta dai montaggi di immagini sempre rinnovati derivanti da queste due dinamiche. Come in ogni montaggio, l’intervallo tra le immagini intreccia legami mentre scava delle profonde distanze.

Cecilia Mangini ha fotografato il mondo intellettuale ed artistico dell’epoca (Pasolini, Carlo Levi in un gioco di specchi, Moravia, Gadda, Pratolini, Chaplin, Zavattini, Fellini davanti a una macchina da scrivere che pure scrive con una penna, John Houston, Satyajit Ray ed Elsa Morante occhi bassi, un fazzoletto sulla testa, quasi nascosta dietro uno squillante cesto di mele e il suo gatto con gli occhi puntati sulla fotografa…); la fabbrica cinematografica e i suoi miti (il montaggio degli scenari per La diga sul Pacifico di René Clement, Sylva Koscina e Steve Reeves su Le Fatiche di Ercole e soprattutto tutto il backstage di La Legge di Jules Dassin); ma anche il rovescio dello spettacolo: il lavoro nelle cave di pietre pomice di Lipari, le bancarelle di Roma, il popolino del Sud d’Italia, di Firenze o di una Milano ancora distrutta dalla guerra. È per esempio nello scarto tra l’immagine di Sylva Koscina, fotografata in piedi mentre contempla la sua immagine in uno specchio, sexy nel suo vestito scollato, allo stesso tempo mito antico (interpreta Jole nel film) e cinematografico (la star del cinema), e quella di Maria, contadina della Puglia, fotografata a casa sua, inginocchiata, il viso nascosto tra le mani, mentre prega. Più tardi, precisamente nel 1964, il film Essere donne monterà dialetticamente le pagine della rivista di moda con immagini della bomba atomica a mo’ di sequenza preliminare di un film sulle condizioni di vita e di lavoro reali delle donne in Italia. Ma è anche, per esempio, il legame intrecciato tra Pasolini fotografato in una borgata in mezzo ai ragazzi, tutti “poveri cristi”, “poveri diavoli” delle fotografie di Roma, di Milano o del Sud.

Non è significativo allora che le fotografie realizzate sul set de La Legge, alle quali è dedicata tutta la terza sezione dell’esposizione la cui scenografia è più “classica”, si concentrino tanto sul regista Jules Dassin o gli attori Gina Lollobrigida, Yves Montand, Paolo Stoppa che sugli abitanti di Carpino, paese molto povero del Gargano nel Nord della Puglia, quanto sui “braccianti” (i giornalieri agricoli) ingaggiati come figuranti? E ancora, non è forse significativo che nel notevole libro che lei coordina sul film per l’altrettanta eccellente collezione “Dal soggetto al film” dell’editore Cappelli, Cecilia Mangini includa una conversazione con l’etno-antropologo Ernesto de Martino? Appena due anni dopo, colpita dalla lettura del suo libro Morte e pianto rituale nel mondo antico, girerà il bellissimo Stendalì, documentario di ricostituzione d’un rituale di lamento funebre filmato a Martano, uno dei rari paesi del Salento dove si parla ancora il dialetto “griko”, ereditato dal greco antico. Pasolini lo sa bene, e attingerà alla tradizione dei canti in griko per comporre il commento del film di Cecilia Mangini. In questo film, come nel resto della sua opera, fotografie incluse, l’invenzione si deve intendere nel senso proprio di una messa in luce, come abbiamo visto, di ciò che è là sotto gli occhi di tutti, ma invisibile, o “reso invisibile”, lasciato cioè fuori campo dalle rappresentazioni dominanti: ma l’invenzione è anche messa in forma, forma data al reale attraverso il mezzo (medium) fotografico o cinematografico. La scienza – o l’intuizione? – dell’inquadratura esplode nella fotografia di Cecilia Mangini. Bisogna assolutamente vedere le fotografie delle cave di Lipari, che ritagliano le figure umane nel biancore accecante della pietra pomice, impressionando un corpo piegato dalla fatica in un’espressiva ripresa dal basso, riconfigurandolo attraverso giochi di linee oblique o verticali. Le sue fotografie, che nascondono già storie potenziali, o piuttosto sono già delle potenti narrazioni dell’Italia degli anni 1950-1960, tendono chiaramente verso il cinema, verso il suo cinema – alcune sono d’altronde fotografie scattate durante i sopralluoghi per il film Firenze di Pratolini che lei realizza nel 1959, il suo secondo film dopo Ignoti alla città.

Con il cinema Cecilia Mangini trova un medium di cui sfrutta tutte le potenzialità espressive e poetiche – a partire dalle risorse del montaggio sonoro e visivo (citiamo soltanto i testi scritti da Pasolini per il commento a Ignoti alla città, Stendalì, La canta delle marane, quella di Franco Fortini per il film di montaggio All’armi siam fascisti, o la musica di Egisto Macchi in Divino amore, Essere donne o Felice natale) – per portare sul mondo uno sguardo impegnato, capace di denunciare le contraddizioni del cosiddetto “miracolo economico” e i pericoli di quello che Pasolini definisce dopo gli anni ’60 il “Nuovo fascismo”, la società dei consumi. L’attività fotografica di Cecilia Mangini non cessa pertanto definitivamente con il passaggio al cinema. L’ultima sala dell’Esposizione presenta una selezione tra le cento fotografie da lei realizzate nel 1965 nel Vietnam del Nord con il suo consorte Lino Del Fra, compagno di vita e di lavoro. Siamo tre anni prima del film di Chris Marker, Lontano dal Vietnam, ma questo film, il film di Cecilia Mangini e Lino Del Fra – poiché sono certamente fotografie di sopralluoghi per una coproduzione Nord Vietnam – Unitelefilm, la ditta di produzione del PC –, non possiamo che immaginarlo, poiché esso non sarà mai realizzato. Là ancora, le fotografie si concentrano sul popolo,  sottomesso alla militarizzazione del paese, ma ancor di più fotografato nel suo lavoro e nel suo tempo libero quotidiano. Terminiamo con un’immagine che non può non ricordare Eisenstein: la fotografia della bocca di un cannone in primo piano puntata direttamente sullo spettatore. Della militanza nel cinema.

*Traduzione dal francese di Patrizia Fantozzi.

Riferimenti bibliografici:
G. Didi-Huberman, “Peuples exposés, peuples figurants”, De(s)générations, Septembre 2009, Figure, figurants, n°9, pp. 7-17.
E. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press 1983.
A.-V. Houcke, Ignoti, banditi, dimenticati: le (hors-)champ de l’Italie (post-)fasciste/la fracture interne, in L. Schifano, A. Somaini (a cura di), S. M. Eisenstein – Leçons mexicaines. Cinéma, anthropologie, archéologie dans le mouvement des arts, Nanterre, Presses Universitaires de Paris Ouest 2016, pp. 263-278.
J. Rancière, Aux bords du politique, Paris, La Fabrique 1998.

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