Solo se il pensiero sarà capace di trovare l’elemento politico che si è nascosto nella clandestinità dell’esistenza singolare,
solo se, al di là della scissione fra pubblico e privato, politico e biografia, zoé e bios,
sarà possibile delineare i contorni di una forma-di-vita e di un uso comune dei corpi, la politica potrà uscire dal suo mutismo…
G. Agamben, L’uso dei corpi

«Furiosa, indignata, antagonista, pietosa, Antigone ha rivestito un ruolo di primissimo piano sulla scena e sullo schermo contemporanei, così come nella scrittura, e non solo in Europa, ma anche in inediti contesti postcoloniali» (Porciani 2018): non ha dubbi Elena Porciani nel constatare come l’eroina sofoclea goda di «ottima salute» in questo scorcio di nuovo millennio e in effetti guardando i cartelloni dei teatri in e off il nome della protagonista rimbalza con grande clamore, confermando un’impressionante tenuta. Contribuisce a questa revanche un incandescente clima geopolitico, che incoraggia (e spesso semplifica) analogie e rivisitazioni nel segno di una “indigenizzazione” (Stanford Friedman 2004) in grado di produrre scarti e slittamenti di sicuro interesse, come è emerso di recente nell’ambito di un seminario intitolato proprio Antigone 2020. Usi e abusi di un mito nella contemporaneità (Sassari, 16 ottobre 2019).

Lo spettacolo inaugurale della stagione del Teatro Stabile di Catania, che con i suoi Meravigliosi inganni reca finalmente traccia della feconda azione di indirizzo impressa dalla nuova direzione artistica, si pone proprio nel solco della “disambientazione” del tragico e coglie con Antigone l’occasione per ribadire la necessità di un confronto aperto con la tradizione che non rinunci a istanze di rinnovamento.

Prima ancora che sulla regia, Laura Sicignano, grazie alla profonda intesa con Alessandra Vannucci, agisce sul testo, traducendolo e riadattandolo senza indugi; l’esito di questo intenso lavoro di drammaturgia è un copione serrato, denso, recitabile, in cui l’impianto originario cede il passo a scene repentine, scorciate, che forse perdono la profondità discorsiva di Sofocle ma recuperano sul versante del ritmo, stretto entro una perentorietà incombente. Nel tornare a maneggiare la materia mitica di Antigone Sicignano e Vannucci optano per un significativo spostamento dell’asse strutturale che provoca un sostanziale rimaneggiamento di ruoli e funzioni attanziali; il primo effetto riguarda l’alleggerimento della parte dell’eroina, le cui ragioni appaiono meno perentorie rispetto all’originale per una sorta di détournement. La figlia ribelle e pietosa di Edipo occupa la scena “di scorcio”, la sua presa di posizione nei confronti dell’editto di Creonte è ancora la scintilla del dramma ma si trova confinata ai margini del quadro, in una zona grigia che finirà per coincidere col buio della sepoltura. Il nero del costume che cinge il corpo teso e fremente di Barbara Morselli è l’indizio di una sfocatura, tanto più sorprendente se si pensa alle incrostazioni cronachistiche che i media depositano intorno alla silhouette del personaggio.

La perentorietà di questa scelta è espressa con convinzione nelle note di regia («La nostra Antigone non dimentica il presente, ma non vuole essere cronaca», Sicignano 2019) e contribuisce a definire un piano drammaturgico per nulla ovvio, che prevede appunto l’emersione di un insolito disegno vettoriale. La trasfigurazione di Antigone comporta infatti il prospettarsi di un reticolo di forze che vede collocarsi alla base del triangolo la dialettica relazione fra le due sorelle, con la novità di un’Ismene che conferma di voler abbandonare il campo della lotta ma appare concreta e autentica nel suo bisogno di sopravvivere alla condanna del ghenos; Lucia Cammalleri, annegata nel bianco della tunica, mostra di aver compreso l’inclinazione del suo carattere e offre al personaggio vibrazioni inedite e una verità che scuote.

Al vertice di questa piramide si pone Euridice, moglie asservita e mater dolorosa, incapace di opporsi al destino perché invischiata in una rete di subordinazione e omertà. Rispetto al chiuso involucro in cui era relegata nel testo sofocleo qui il personaggio riceve un significativo raggio d’azione che vale però soltanto a ribadire la legge del “troppo tardi” dal momento che la sua reazione di fronte alla morte del figlio non riesce a riscattarla dal giogo di una passività colpevole. Egle Doria incarna con maturità e colore lo scacco di una femminilità sempre “fuori tempo”, mentre gli accenti del suo corpo mimano le pose di una ritualità estenuante, in cui la donna è oggetto di lusinghe maliziose. La sua presenza nel finale riverbera un sentore di pianto e disperazione mentre fin dal suo apparire l’attrice immette sul bordo del palco una sensualità muta e impotente.

Se il recinto del femminile offre la declinazione di soggettività inquiete, ora indomite e appassionate ora invece rassegnate e servili, l’orizzonte maschile vede un sensibile cambio di paradigma: al coro di anziani subentra infatti una cerchia di soldati che ribalta il canone del dramma e insinua tra le pieghe del plot una nota di ambigua cortigianeria. Disposti sempre al centro dello spazio scenico, questi ragazzi-guardie indossano divise che richiamano «infinite guerre mediorientali» e si mostrano capaci di «empatia e minaccia, poesia e violenza» (ibidem); attraverso uno scrupoloso intarsio di episodi e battute spetta a loro muovere e commentare l’azione, secondo un meccanismo di rifrazioni e di pause ben orchestrate. Silvio Laviano (primo soldato e messaggero) e Pietro Pace (secondo soldato) esibiscono una virilità compiaciuta e dinamica, scandita da gesti mobili e da una dizione attenta, frutto di un paziente lavoro di scavo e regia; è proprio la misura dei movimenti e della voce a dar forza all’impianto drammaturgico e a far emergere le intenzioni di questa riscrittura.

Di altro segno la declinazione di Tiresia (Franco Mirabella) e della guardia (Simone Luglio), che spostano il tono verso un registro magico-fiabesco (con un indovino mago che incrina l’aura di sacralità tributata di solito al personaggio) e verso una prosaicità un po’ meschina, capace a tratti di strappare un sorriso nonostante il precipitare degli eventi. L’abbassamento farsesco provocato dalla guardia compensa la retorica del potere incarnata da Creonte, dominus di una città sferzata dalla protesta di Antigone. Sebastiano Lo Monaco interpreta il suo ruolo sulla scorta di un habitus recitativo che lo pone in antitesi col coro e tale frizione produce un’energia interessante.

A fronteggiarsi sono innanzitutto due modelli performativi differenti: Creonte è a servizio di una classicità “borghese”, trattenuta ma goffa perché sorda all’ascolto e intrisa di stereotipi mentre i soldati si muovono in direzione di un teatro fisico, a mezza via fra straniamento e simbolo. Un po’ tiranno un po’ rasonneur, Lo Monaco mette a disposizione dello spettacolo una sicilianità sofferta che lentamente declina in strazio: di fronte all’annientamento della sua famiglia e del suo regno il personaggio si piega e quasi trattiene il grido, in una posa di contrizione efficace. Nulla può Emone, un convincente Luca Iacono, dinnanzi alla protervia del padre; il tentativo di creare un varco nella cortina di ferro del suo potere si scontra con l’irresolubilità di una coscienza cieca, destinata allo smacco.

La scacchiera di funzioni e discorsi riassemblata da Sicignano e Vannucci trova respiro nel contesto di uno spazio scenico «astratto e visionario», che richiama palazzi in rovina e allude a un regime post-apocalittico, in cui tutto sembra già compiuto. Prima del crollo delle pareti, ultimo atto di un collasso annunciato, l’insistenza sul motivo della polvere rilancia l’idea di un teatro abitato dalla fine che tenta di sfidare la perdita. Ad arginare il dolore e a rimotivare la tragedia ci pensano le sonorità arcaiche di Edmondo Romano, a cui si deve un tappeto musicale di grande suggestione: «Solo strumenti a fiato e percussivi […] perché il respiro e il percuotere sono gesti primari dell’uomo, come la parola», (ibidem). Più che un semplice commento, la drammaturgia sonora è dunque un sottotesto che punteggia l’atmosfera dello spettacolo veicolando lo spirito di un sincretismo ancora possibile.

Riferimenti bibliografici
P.P. Pasolini, Teatro, Milano, Mondadori, 2000.
E. Porciani, Rappresentare e studiare Antigone ai tempi del terrorismo. Su un recente volume di Sotera Fornaro, Arabeschi, a. VI, n. 11, gennaio-giugno 2018.
L. Sicignano, Note di regia, in Antigone, Programma di sala, Teatro Stabile Catania, ottobre 2019.
S. Standford Friedman, Whose Modernity? The Global Landscape of Modernism, University of Texas, 18 febbraio 2004.

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