Le immagini amatoriali di dolore e di distruzione della guerra civile siriana hanno saturato e continuano a proliferare all’interno del mediascape contemporaneo. Nei primi mesi di rivolta, specialmente da marzo a giugno 2011, i filmati realizzati dai cittadini erano le uniche immagini che provenivano dal paese. Dal momento che le principali agenzie di stampa, i maggiori network di informazione e i giornalisti professionisti erano stati banditi dalla Siria, i cittadini si sono assunti la responsabilità e l’imperativo di riprendere e testimoniare le loro stesse proteste così come le violente reazioni dei membri e dei sostenitori del regime di Assad (Della Ratta 2018).
All’interno di questo contesto, Papadopoulos identifica l’emergere di una nuova figura, il citizen camera-witness, che sostituisce il giornalista come garante dell’autenticità della testimonianza. Il termine si riferisce specialmente ai «dissidenti e agli attivisti politici che brandiscono una camera mettendo a rischio le proprie vite per produrre un’incontrovertibile testimonianza pubblica atta a denunciare le ingiustizie e le violenze subite» (Papadopoulos 2013a, p. 754). A differenza del testimone oculare, identificato come qualcuno che in maniera casuale e fortuita assiste ad un evento, il citizen camera-witness è consapevole dell’importanza e del ruolo che assume, così come del rischio che incorre nel filmare. L’imperativo e la necessità testimoniale sono mossi al fine di poter mobilitare la solidarietà globale attraverso il potere di affezione e immediatezza dell’immagine.
Negli ultimi anni numerose sono le produzioni documentarie che cercano di restituire in “presa diretta” il conflitto, filmando gli eventi nel loro svolgersi, attraverso un punto di vista interno, calando lo spettatore nella tragica realtà che la popolazione è costretta ad affrontare quotidianamente. Ad ogni modo, come sottolinea Mroué nella sua performance The Pixelated Revolution (2012), la rivoluzione siriana consiste in un evento «aesthetically digitized» (Mroué, Nawfal, Martin 2012, p. 24). Il citizen imagery segue delle pianificate strategie politiche ed estetiche, con l’obiettivo di conferire autenticità e immediatezza così come per rappresentare e restituire allo spettatore un’esperienza localizzata, soggettiva e incarnata. I video realizzati dai citizen camera-witnesses, come sottolinea ancora Papadopoulos, sono caratterizzati da alcune caratteristiche estetiche e formali come l’ipermobilità, l’opacità, la non narratività e il raw audio.
L’immaginario illustrato dal citizen camera-witnessing è molto spesso caotico e indiscriminato, non viene posta attenzione a un particolare punto d’interesse e non vengono forniti allo spettatore dettagli o informazioni concernenti l’episodio che sta osservando. Queste caratteristiche estetiche e formali che caratterizzano il citizen imagery sono evidenti in The Return to Homs (2013), il primo documentario diretto da Talal Derki. Il regista filma, nel corso di due anni, le proteste e le rivolte anti-regime nella città di Homs, seguendo due giovani attivisti. Molte delle immagini del film vengono realizzate in condizioni di pericolo di vita, come durante le dimostrazioni o i bombardamenti, realizzate con mezzi limitati e senza particolare riguardo sia alla qualità estetica che a quella cronachistica. Il loro principale intento è infatti quello di servire come immagini-prova, immagini-shock, per denunciare la violazione dei diritti umani e le violenze perpetrate dal regime di Assad.
Nel film successivo Of Fathers and Sons, Derki decide di mostrare invece il conflitto dal punto di vista dei Jihadisti. L’uomo si finge sostenitore della politica del califfato al fine di infiltrarsi all’interno di una famiglia estremista. Il regista segue per due anni Abu Osama, membro di Al-Nusra gruppo armato affiliato con Al-Qaeda, e i suoi figli, che sono stati chiamati come alcuni noti terroristi. Derki filma un rapporto, quello del padre nei confronti dei bambini, che in apparenza può sembrare d’affetto ma che riserva una chiara educazione verso la violenza in un ambiente tossico privo di figure femminili (al regista è assolutamente vietato filmare o interagire con le due mogli e le figlie di Abu Osama).
Questo germe di orrore e morte, pronto a contaminare anche l’innocenza dei bambini, emerge chiaramente in una delle scene iniziali. Il figlio più piccolo Khatab, di circa quattro anni, e Osama, di dodici, portano al padre un passerotto ferito che hanno trovato nel cortile davanti casa. Abu Osama ordina ai bambini di ucciderlo. Nella scena successiva vediamo Osama sorridente che racconta al padre come il fratellino abbia ucciso il volatile, sgozzandolo con un coltello, proprio come il genitore aveva fatto con un prigioniero del Fronte Nazionale. Il film si concentra sul rapporto, malato, tra il padre e i figli piuttosto che cercare di carpire segreti o strategie dello stato islamico. Abu Osama considera la guerra santa l’unica ragione di vita e il martirio il massimo obiettivo a cui aspirare nell’esistenza terrena.
Nonostante l’utilizzo della camera a mano, il regista predilige una narrazione chiara, lineare, le immagini sono stabili e i soggetti a fuoco, rifiutando dunque l’ipermobilità e la caoticità del cinema documentario anti-regime. I pixel non sono più sgranati e le riprese non vengono interrotte da un colpo di artiglieria o da una fuga repentina da parte dell’operatore. Come sottolinea ancora Mroué, solo chi compie la violenza e non chi rischia la propria vita documentandola può permettersi il lusso della costruzione dell’immagine e dell’inquadratura fissa. Ad ogni modo, le immagini realizzate da Derki si discostano dal citizen imagery ma non assumono neanche il ruolo di perpetrator images. Non viene performata alcun tipo di violenza a favore di camera (l’unico episodio riguarda il sacrificio di una capra come atto ritualistico). Il regista evita appositamente di mostrare immagini-shock, che avrebbero suscitato nello spettatore rabbia più che commozione, verso una topica della denuncia nei confronti dei jihadisti, per concentrarsi sul rapporto padre e figli e la crescita in un contesto votato alla violenza e all’odio verso l’infedele.
La famiglia vive in un casolare sulla cima di una collina, lontana dal fuoco del conflitto. I raid aerei, le macerie, le vittime civili sono distanti, fuori campo. I bambini spensierati giocano tra i campi minati, tra i rottami di un carro armato, per nulla spaventati, ormai abituati ad una guerra che sembra essere senza fine. Tuttavia, come nella scena del passerotto descritta precedentemente, questa quiete è solamente illusoria e il circolo vizioso della violenza a cui sono educati è pronto a rendersi manifesto anche nei momenti ludici, come ad esempio, quando per gioco decidono di costruire una bomba che poi fanno esplodere nel cortile. Il percorso di educazione/formazione giunge a compimento verso il finale del film. Abu Osama, ormai completamente inerme dopo aver perso un piede a causa di una mina, manda i due figli più grandi Osama e Ayman, nel campo di addestramento di Al-Nusra. Qui vediamo i bambini, con la mimetica del gruppo armato e il volto coperto, allenarsi per il conflitto, correre, scavalcare staccionate, sparare, urlando il nome di Allah.
L’infanzia perduta e distrutta dalla guerra è un topos centrale nel cinema documentario siriano. Le immagini di bambini uccisi nel corso della guerra sono le immagini più potenti al fine di suscitare commozione nello spettatore, rischiando molte volte di convertire patemicamente il racconto emozionale, come nel caso di Last Men in Aleppo (Fayyad e Johannessen, 2016), Caschi Bianchi (von Einsiedel, 2016) o Cries From Syria (Afineevsky, 2017), dove la macchina da presa si sofferma in maniera straziante sui corpi inermi.
Of Fathers and Sons non cerca di provocare una reazione empatica, ma mostra il principio e la nascita della violenza e dell’orrore, celati ma pronti ad esplodere. Derki entra in un universo inaccessibile e incomprensibile con l’obiettivo di rendere lo spettatore consapevole dell’innocenza e dell’infanzia perduta dalla generazione cresciuta sotto il fuoco del conflitto, destinata in questo caso a seguire le orme dei padri, come Osama, pronto ad unirsi alla guerra santa.
Riferimenti bibliografici
D. Della Ratta, Shooting a Revolution: Visual Media and Warfare in Syria, Pluto Press, London 2018.
R. Mroué, Z. Nawfal, C. Martin, Pieces The Pixelated Revolution, in “TDR”, n. 3, 2012.
K.A. Papadopoulos, Citizen camera-witnessing: Embodied political dissent in the age of mediated mass self-communication, in “New media & society”, n. 5, 2013a.
K.A. Papadopoulos, Media Witnessing and the “Crowd-Sourced Video Revolution”, in “Visual Communication”, n. 3, 2013b.