Esistono alcune fotografie realizzate da Massimo Verdastro nell’autunno 1990, esposte solo in rare occasioni. Gli scatti, in bianco e nero, fissano le prove di uno spettacolo. Vi sono ritratti di alcuni degli attori più noti del nostro teatro, tra cui Massimo Popolizio, Marisa Fabbri, Anna Maria Guarnieri, Galatea Ranzi; immagini di maestranze al lavoro, di giovani interpreti entusiasti attorno a una figura, il regista, che osserva e dirige. Sullo sfondo la grande Sala Presse del Lingotto di Torino, su cui si stagliano pedane, antiche macchine da stampa, un’imponente locomotiva a vapore. 

Lo spettacolo che si sta allestendo è Gli ultimi giorni dell’umanità, da un testo “irrappresentabile” dell’austrico Karl Kraus. Il regista è uno dei nomi più significativi del teatro contemporaneo: Luca Ronconi. Molto riescono a dirci queste fotografie della pratica teatrale ronconiana: la scelta di uno spazio per la rappresentazione che evidentemente è ben altro dal consueto palcoscenico; l’attento lavoro con gli attori, che siano professionisti o appena formati; quindi la genesi di una macchina scenografica complessa, frutto di una mente visionaria. 

In oltre cinquant’anni Luca Ronconi si è dedicato a centinaia di regie di prosa e lirica, a cui si aggiungono progetti di teatro in televisione, allestimenti radiofonici e corsi di formazione per attori. Un’esistenza votata al teatro, un viaggio di rischi e utopie, che ha portato a esiti tra i più diversi e originali. Difficile dare una valutazione d’insieme a un percorso artistico così complesso. Tuttavia è evidente come, fin dal debutto registico nel 1963 con La buona moglie di Carlo Goldoni, dopo un decennio dedicato alla recitazione, Ronconi non abbia mai smesso di verificare le molteplici possibilità dell’arte scenica, inseguendo un’idea di teatro intesa come audace sperimentazione, costante confronto con lo spettatore e, soprattutto, strumento d’indagine per sé stesso e gli altri: «Mi piace considerarlo un modo e un processo di conoscenza. Non amo fare cose perché so già come farle: mi piace farle per vedere se le so fare, e per scoprire cosa mi fa conoscere il fatto di farle» (Ronconi, Capitta 2012, p. 8).

Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, studiare la figura di Ronconi mette in campo una serie di problematicità. Anzitutto, come si colloca la regia ronconiana nella storia del teatro italiano? Seppur vicino al teatro d’avanguardia, tanto da apparire tra i firmatari del Manifesto Per un convegno sul nuovo teatro, lanciato nel 1966 sulla rivista Sipario da Giuseppe Bartolucci, Edoardo Fadini, Ettore Capriolo e Franco Quadri, e poi tra i partecipanti al Convegno di Ivrea (1967), primo tentativo di sistematizzazione dei fenomeni ascritti al Nuovo Teatro, già in quel momento le creazioni del regista appaiono sfuggevoli a qualunque classificazione, poiché accolgono ricerca e tradizione, rappresentando – sostiene Claudio Longhi – la «possibilità di un collegamento fra quei due binari che non si toccavano» (Carlotto, Ponte di Pino 2021, p. 45). 

Un atteggiamento sovversivo, politico nella sua libertà, che segnerà l’intero percorso ronconiano, anche quando dalla fine degli anni Ottanta il regista si confronterà con il teatro istituzionale dal suo interno, nel ruolo di direttore artistico dei teatri stabili di Torino (1989-1994), Roma (1994-1998) e Milano (1998-2015). È Lorenzo Mango ad avanzare l’ipotesi che la figura di Ronconi vada inscritta tra quelli che lo studioso definisce «registi di costruzione», che ricorrono a una modalità di lavoro in cui «la scrittura scenica predispone una macchina drammaturgica parallela al testo» (Mango 2019, p. 260). Lo stesso Ronconi affermava di sentirsi un «interprete», un mediatore dello spettacolo, attraverso un lavoro sul testo, la recitazione e l’impianto visivo (Lenti 2011, p. 21). 

Per Ronconi è la lettura la chiave d’accesso al processo creativo, quindi è il testo il suo punto di partenza. Basta scorrere la sua teatrografia per rendersi conto della varietà dei lavori messi in scena dal regista, alla costante ricerca della teatralità insita nella parola letteraria. Secondo Ronconi «il teatro è vorace, e può mangiare di tutto» (Ronconi, Capitta 2012, p. 23). Allora, affianco ai classici – solo per citarne alcuni, Riccardo III di William Shakespeare (1968), Fedra di Jean Racine (1984), Tre sorelle di Anton Cechov (1989), e coraggiose prove di drammaturgia contemporanea (Donna di dolori di Patrizia Valduga, 1992; Davila Roa di Alessandro Baricco, 1997; Lehman trilogy di Stefano Massini, 2015), Ronconi realizza spettacoli su testi che non nascono per la scena: dal celebre Orlando furioso (1969), che vede la collaborazione del regista con Edoardo Sanguineti per la riduzione del poema cavalleresco di Ludovico Ariosto, fino ai grandi romanzi – proposti senza alcuna mediazione drammaturgica, in «un lavoro scenico basato esclusivamente sulla fonte diretta» (Marchetti 2016, p. 27) – Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda (1996), I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij (1998), Quel che sapeva Maisie di Henry James (2002), e Pornografia di Witold Gombrowicz (2013); a cui si aggiungono progetti su sceneggiature (Lolita sceneggiatura, 2003), saggi (Infinities, 2003; Lo specchio del diavolo, 2006), ed epistolari (Il silenzio dei comunisti, 2006).

È soprattutto lo spazio scenico a dare dimensione alla parola: «Ritengo che ogni testo teatrale o non teatrale […] presupponga uno suo spazio unico. […] Da parte mia ho sempre pensato che le coordinate spaziali – intendo in rapporto al pubblico – dovessero variare di testo in testo, e che il teatro si può fare ovunque» (Ronconi, Capitta 2012, pp. 49-50). Allora, si pensi all’Orlando furioso, con cui Ronconi mette in discussione l’utilizzo canonico dello spazio teatrale, ricorrendo a soluzioni di simultaneità in scena, grazie a un sistema di pedane mobili a fare da differenti palcoscenici. Proprio a partire dall’Orlando, che debutta in una chiesa sconsacrata di Spoleto nell’ambito del Festival dei Due Mondi (4 luglio 1969), significativa è la scelta di luoghi non strettamente deputati alla rappresentazione, come nel caso degli ex cantieri navali della Giudecca, dove nel 1975 presenta Utopia da Aristofane, o il Lingotto di Torino, ex fabbrica Fiat, per Gli ultimi giorni dell’umanità (1990), o i laboratori della Scala alla Bovisa per Infinities (2003). L’utilizzo di ambienti alternativi non esclude l’impiego di uno spazio più tradizionale di un teatro all’italiana, come nel caso del Teatro Argentina di Roma per Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in un allestimento le cui soluzioni sceniche sono rimaste nella memoria culturale.

Ci si chiede oggi quale sia l’eredità artistica di Ronconi. Se pensiamo a un’eredità materiale, esiste un archivio personale donato dal regista alla cura di Roberta Carlotto. Ci sono poi altre tracce documentali, sparse tra archivi di istituzioni e teatri o conservate dalle tante personalità con cui il regista ha collaborato. L’insieme di questi lasciti è una preziosa chiave d’accesso ad una straordinaria storia artistica e professionale, che ancora è ricca di aspetti da indagare. C’è poi l’eredità del suo incessante lavoro pedagogico: «Nella mia personale esperienza di regista […] il lavoro di messa in scena non è mai stato disgiunto dall’impegno didattico, essenzialmente concentrato sulla figura dell’attore» (Ronconi 1999, p. 42).
Dal Laboratorio di Progettazione teatrale di Prato (1976-1978) alle scuole dei Teatri Stabili, fino al Centro Teatrale Santacristina fondato nel 2002 con Carlotto, Ronconi ha provato a riproporre quel suo ambizioso progetto di formazione per giovani interpreti, divenuto negli ultimi anni luogo di sperimentazione delle sue più mature riflessioni sul teatro.

Forse la parabola artistica del regista si può leggere anche in questo modo: sebbene Ronconi avesse rifiutato sempre l’etichetta di “regista pedagogo”, evidente è in lui una graduale sottrazione della propria figura pubblica, che dal palcoscenico – prima come attore, poi da regista – lo ha portato con l’esperienza di Santacristina a dedicarsi quasi esclusivamente a un compito più sommesso, ma per lui vitale, come la preparazione dell’attore. E forse è proprio nelle tante generazioni di interpreti che ha formato, che la sua idea di teatro resta permanente, nelle tracce di un metodo ineffabile destinato a rimanere vivo. 

Riferimenti bibliografici

R. Carlotto, O. Ponte di Pino, a cura di, Regìa Parola Utopia. Il teatro infinito di Luca Ronconi, Quodlibet, Roma 2021.
M. Lenti, Luca Ronconi un’idea di teatro. Conversazioni e testimonianze, Mimesis, Milano 2011.
M. Luconi, a cura di, Luca Ronconi. Il palcoscenico dell’utopia, Edizioni Clichy, Firenze 2016.
L. Mango, Il Novecento del teatro. Una storia, Carocci, Roma 2019.
M. Marchetti, Guardare il romanzo. Luca Ronconi e la parola in scena, Rubbettino, Catanzaro 2016.
F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Einaudi, Torino 1973.
L. Ronconi, G. Capitta, Teatro della conoscenza, Laterza, Roma-Bari 2012.
Id., Il mio teatro (1999), in C. Longhi (a cura di), La regia in Italia, oggi. Per Luca Ronconi, Culture Teatrali n. 25, La Casa Usher, Firenze 2016.
L. Ronconi, Prove di autobiografia, a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, Milano 2019.
V. Valentini, Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013, Bulzoni, Roma 2015.

Luca Ronconi, Susa, 8 marzo 1933 – Milano, 21 febbraio 2015.

*Fotografia per gentile concessione di Massimo Verdastro.

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