Ad apertura del palcoscenico, lo spettatore de La città morta (Die tote Stadt, 1920) di Erich Wolfgang Korngold, messo in scena da Graham Vick al Teatro alla Scala, si trovava subito immerso in un’atmosfera hitchcockiana: il gioco dei drappi richiamava alla mente Rebecca, mentre più oltre una serie di occhi in primo piano citavano il sogno disegnato da Salvador Dalì per Spellbound (Io ti salverò, 1945). E in effetti la trama di quest’opera è molto simile a quella di un grande capolavoro di Alfred Hitchcock, Vertigo (La donna che visse due volte, 1958): entrambi raccontano l’ossessione amorosa di un vedovo per una donna che assomiglia in modo perturbante alla moglie morta, adorata con un feticismo chiaramente necrofilo, fino all’incontro con il suo doppio post mortem. Korngold e Hitchcock attingono a fonti diverse: il primo riprende un romanzo decadente, Bruges la morta (1892) di Georges Rodenbach, mentre il secondo adatta un romanzo noir, Fra i morti (1954) di Boileau e Narcejac. Ma al di là delle fonti dirette, si tratta di un motivo abbastanza diffuso, una sorta di versione secolarizzata del mitema della reincarnazione, che rientra nelle dinamiche del doppio, tese a scardinare ogni forma di identità, e a destabilizzare anche il confine fra vita e morte. Ritroviamo infatti lo stesso motivo nel fantastico romantico, ad esempio nell’eros necrofilo di Edgard Allan Poe (Ligeia, 1838), di nuovo nell’estetismo di fine secolo (La somiglianza di Luigi Galdo), nella narrativa contemporanea (Due volte la stessa carezza di Nadia Fusini del 1997), e infine, nella variante del figlio morto ritrovato dal padre, in due racconti del primo Ottocento (Paolo o la somiglianza di Nodier e Il trovatello di Kleist).

Dal romanzo all’opera il percorso di adattamento non è affatto lineare, e presenta novità molto significative. Rodenbach aveva scritto una versione teatrale del suo romanzo, Il miraggio, che però non andò mai in scena, anche se fu accettata dalla Comédie Française; fu poi tradotta e messa in scena nel 1903 con il titolo La città silenziosa (Die stille Stadt) dal drammaturgo austriaco Siegfried Trebitsch, amico del padre di Korngold, un influente critico musicale che ha giocato un ruolo ingombrante nella vita del compositore. Sollecitati da Trebitsch, e dal grande successo del dramma (che nella seconda edizione del 1913 prende il titolo L’immagine ingannevole, Das Trugbild), padre e figlio iniziarono a lavorare insieme al libretto, che firmarono con lo pseudonimo Paul Schott.

Il loro adattamento trasforma alcuni nuclei significativi del testo: inserisce infatti una lunga visione onirica in cui il protagonista Paul vede l’attrice Marietta, replica sensuale e dionisiaca dell’idealizzata Marie, nel suo ambiente teatrale e carnevalesco, e sviluppa con lei un rapporto complesso, che implica anche la disillusione e la decostruzione della somiglianza, fino al finale tragico, in cui la strangola con la treccia della moglie morta, oggetto-feticcio che Marietta aveva giocosamente profanato. A questo punto troviamo l’innovazione più eclatante del plot dell’opera, la sua «trasformazione pragmatica» del modello (per richiamarci ai Palinsesti di Genette): Marietta torna nella casa di Paul a riprendersi i fiori che aveva dimenticato, il che conferma che quasi tutta l’opera è stata un sogno del protagonista (Korngold si preoccupava infatti che la divisione in atti potesse compromettere la continuità della visione, ma la soluzione dell’atto unico avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo per il tenore).

Nel passaggio dal decadentismo simbolista di Rodenbach al modernismo di Korngold, la psicanalisi ha giocato un ruolo importante, a Vienna in particolar modo, ovviamente. Proprio in quegli anni, nel 1917, Freud pubblica Lutto e malinconia, che può funzionare benissimo come un commento a La città morta, soprattutto quando tratta la perdita di interesse per il mondo e la psicosi allucinatoria del desiderio. Grazie alla «forza purificatrice del sogno» (Stolberg 2019), Paul si è liberato dell’ossessione funebre, e nel finale sembra pronto a una nuova vita. L’opera si sarebbe dovuta chiamare infatti Il trionfo della vita, ma alla fine Korngold ha scelto il titolo del romanzo, privandolo solo del riferimento alla città fiamminga: in effetti (e per fortuna) il suo finale non è trionfale ed euforico, dato che la musica riprende il motivo della canzone di Marietta, mentre il protagonista fa una dichiarazione piuttosto vaga sul suo futuro («Vuoi venire con me? Via dalla città della morte?», gli chiede l’amico Franck; e lui risponde «Voglio…voglio provarci», finendo poi con un monologo amaro).

Su questa base un regista come Götz Friederich ha potuto trasformare il finale in un suicidio, mentre, a Berlino, Carsen lo faceva internare in un manicomio; Graham Vick punta invece a sull’aspetto metateatrale, facendo smantellare la scenografia mentre Paul lascia mestamente la scena. Resta insomma un’ambiguità fra l’ossessione funebre concretizzata dalla città di Bruges e il suo superamento catartico, fra la pulsione decadente di morte e l’energia dionisiaca di vita, fra il fascino della spettralità e la volontà di rinascita.

La visionarietà dell’opera, che comporta anche un’apparizione della moglie morta alla fine del primo atto, ha sempre stimolato la creatività dei registi, che hanno spesso usato schermi e video. Nella versione di Robert Carsen, per la Komische Oper di Berlino, la soglia fra visione e realtà era sempre richiamata alla mente, mentre Graham Vick punta più su una contaminazione eclettica fra l’hi tech contemporaneo e un passato rarefatto e simbolista. E l’eclettismo è anche la cifra caratteristica della musica di Korngold, in cui si mescolano dissonanze sperimentali e melodie struggenti; anticipazioni della sua attività di compositore per Hollywood ed echi di Strauss, Puccini (che si era interessato a questo soggetto) e Léhar (in particolare l’operetta Zigeunerliebe, in cui c’è una lunga visione). Il tutto però perfettamente fuso in uno stile idiosincratico e drammaturgicamente funzionale.

È quindi meritoria la scelta della Scala (che fa seguito a un’edizione della Fenice di Venezia con la regia di Pizzi, disponibile in DVD): ci permette infatti di conoscere meglio una parte meno nota dell’opera novecentesca, sempre schiacciata sulla linea progressiva esaltata da Adorno (che accusava infatti Korngold di Kitsch pretenzioso), una linea che non ha dato molto spazio al teatro musicale, se non grazie a Berg e ad altre figure eretiche come Berio. Al contrario, la linea ibrida e impura di Korngold, in cui rientra anche Ernest Krenek (più incline alle mistioni con il jazz, se si ascolta il suo capolavoro, Jonny spielt auf, proposto anni fa dalla Decca nella serie sulla musica “degenerata”), avrebbe potuto dare all’opera novecentesca una presenza più incisiva, soprattutto grazie al suo forte impatto emotivo e comunicativo. Prima ancora che dal purismo dodecafonico, fu spazzata via comunque dalla persecuzione nazista.

Korngold andò in esilio assieme al padre, che non accettò mai la sua attività di compositore di musica da film (iniziata comunque su invito del grande Max Reinhardt per Sogno d’una notte di mezza estate). Un’attività che lo portò comunque a vari successi e ad un Oscar per La leggenda di Robin Hood (1938), fino all’ultimo film con la Warner Bros, Deception del 1946, con Bette Davis. Dopo la guerra, cercò invano di rientrare nel mondo della musica colta europea, soggiornando spesso a Vienna, ma non gli fu perdonato il lavoro nel cinema, e fu bollato come neo-romantico, per cui morì a Hollywood nel 1957, dimenticato ed amareggiato.

In effetti dopo il successo eccezionale di La città morta (che ebbe addirittura una doppia prima rappresentazione, ad Amburgo e a Colonia, diretta da Klemperer) la sua carriera è stata in continuo declino: non possiamo che concludere augurandoci che questo ritorno del suo capolavoro nel repertorio dei teatri d’opera sia l’inizio di un recupero di tutta la sua opera, e di tutto il contesto che gli gravita intorno, fra teatro, cinema e musica.

Riferimenti bibliografici
G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997.
A. Stolberg, Sulla «forza purificatrice del sogno». Erich Wolfgang Korngold: “Die tote Stadt”, Teatro alla Scala, Milano 2019 (programma di sala del Teatro La Fenice).

*Le immagini presenti nell’articolo e in anteprima sono foto di scena di Marco Brescia e Rudy Amisano. Fonte: Teatro alla Scala.

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