Il 2022 segna una fase nuova nella storia della riscoperta continua del cinema di Douglas Sirk. Destino singolare quello di un regista che ha attraversato molte vite: costretto ad abbandonare prima il teatro (sua grande e perenne passione) poi la Germania (con l’occupazione diretta dell’industria cinematografica tedesca da parte di Goebbels), si ritroverà negli Stati Uniti come ultimo arrivato tra gli intellettuali emigrati dall’Europa, guardato con sospetto per la sua lunga permanenza nella Germania nazista nella quale aveva realizzato film importanti, costruito star come Zarah Leander e lavorato con attori come Ferdinand Marian, sulla cui memoria peserà per sempre la successiva partecipazione al più famigerato dei film di propaganda, Jud Süß (1940) di Veit Harlan. Costretto a lungo a lavorare prima come sceneggiatore e solo in un secondo momento tornato a dirigere film, dalla seconda metà degli anni cinquanta diventerà l’amatissimo (dal pubblico più che dalla critica) creatore dei grandi melodrammi Universal per i quali è per lo più ancora oggi ricordato.
Ma questa era, ed è, storia nota, anche se per consolidare la sua figura come una delle più importanti della storia del cinema si è dovuti passare attraverso una serie di tappe: l’intervista di Daney e Skorecki pubblicata sui Cahiers du Cinéma accanto a una profonda analisi di Comolli; il libro di conversazioni con Jon Halliday che fece luce sulla sua idea di cinema e ne permise il primo vero apprezzamento internazionale; il saggio in cui Rainer Werner Fassbinder gli dichiarò il suo amore incondizionato; le retrospettive a Edimburgo, Locarno e una serie di altri omaggi e riconoscimenti da parte di registi celebri come Jean-Luc Godard, Todd Haynes, Kathryn Bigelow, Pedro Almodovar – e molti altri.
Non è stato abbastanza, se ancora oggi si tratta di tornare a fare un punto sull’opera di Sirk riuscendo a ritrovare per la prima volta – come hanno fatto con rigore e non minore passione Roberto Turigliatto e Bernard Eisenschitz, curatori della retrospettiva della 75esima edizione del Festival di Locarno – alcune opere considerate perdute per sempre, come due dei primi tre cortometraggi realizzati nel 1934 presso gli studi dell’UFA: Zwei Windhunde e 3 x Ehe (Dreimal Ehe) – il terzo, Il malato immaginario, era moderatamente più noto.
È giunta dunque l’ora di ricominciare a guardare più a fondo i suoi film e ridare spazio all’analisi. In Italia lo hanno fatto in pochi (Alberto Castellano, Giovanni Spagnoletti tra gli altri), mentre in occasione della retrospettiva locarnese, grazie anche alla consultazione del Fondo Douglas Sirk depositato da Matthias Brunner alla Cinémathèque Suisse, è stato pubblicato l’importante studio di Bernard Eisenschitz che sin dal titolo (Douglas Sirk, né Detlef Sierck, 2022) mostra la continuità alla luce della quale tutta l’opera del regista merita di essere considerata, a partire dalla carriera teatrale nella Repubblica di Weimar. Questo rinnovato interesse è un’occasione stimolante per ridiscutere di alcuni aspetti del cinema di Sirk, avanzando qualche ipotesi.
Si potrebbero stilare le voci di un intero abecedario che attraversi in modo trasversale le opere del regista. Una di queste riguarderebbe certamente il ruolo dei bambini nei suoi film, che proverò a interrogare brevemente qui. Ancorché non del tutto ignorato – spesso a causa del comportamento infantile degli adulti, a differenza di quello dei più piccoli – il tema è lungi dall’essere centrale negli studi su Sirk. Eppure, a dispetto di un’apparente marginalità, la presenza ricorrente dell’infanzia nel suo cinema, sin dai primi film tedeschi, rappresenta senza dubbio uno dei suoi maggiori centri d’interesse. Nel bel libro pubblicato nel 2019 Tom Ryan identifica un po’ troppo sbrigativamente in un paio di film dedicati alla provincia americana un trattamento diverso dei bambini rispetto all’intero resto della produzione del regista. Ma la questione merita di essere articolata maggiormente, provando innanzitutto a distinguere i bambini dai ragazzi (dagli adolescenti), e più in generale dai figli. L’ipotesi che vorrei sottoporre a verifica è dunque che per Sirk i bambini non siano esattamente la stessa cosa dei figli, per ragioni direttamente connesse alla visione del mondo che il suo cinema esprime e che è molto lontana dall’immagine che spesso superficialmente gli si è attribuita.
Il regista parla in modo esplicito di questi temi sia con i critici dei Cahiers sia con Jon Halliday. A quest’ultimo dichiara:
Mi interessa moltissimo il contrasto tra i bambini e gli adulti: un mondo che guarda un altro mondo in declino, senza sapere se avrà lo stesso destino… Lo sguardo di un bambino è sempre affascinante. Sembra quasi dire: è questo che il destino ha in serbo anche per me? Il punto è: i bambini sono davvero puri? Non ne sono così convinto. La loro innocenza verrà distrutta. Sono simboli della malinconia, non della purezza. Solitamente i bambini compaiono verso la fine dei film per far vedere che sta per arrivare una nuova generazione. Nei miei film volevo mostrare esattamente il contrario: credo che siano le tragedie a ricominciare da capo, incessantemente (Halliday, Sirk 2022, pp. 193-194).
E oltre ad aggiungere che i bambini gli piacciono un sacco, parla di un progetto mai realizzato, un film sulla Crociata dei bambini, bocciato dall’Ufa a causa dell’assenza di star adulte:
La mia idea era quella di farne un film incentrato esclusivamente sui bambini. Nessun adulto. E i bambini non sarebbero stati solo bravi bambini, ma anche bambini cattivi, soprattutto quelli più grandi, che tiranneggiavano gli altri (ibidem).
Di bambini cattivi – e cioè insolenti, indisponibili a riprodurre come tale l’ordine costituito, desiderosi di un suo sabotaggio creativo, non sottomessi – il cinema di Sirk non è certo privo. Sin da Boefje (1939), che segue le vicende dei due mascalzoni Jan e Pietje, passando per la sequenza (quasi) iniziale di Venere peccatrice (1946) che un Sirk non accreditato girò in un film dalla regia di Edgar G. Ulmer, in cui la piccola Jenny prima sfida e poi quasi affoga il suo coetaneo Ephraim, salvo far finta di salvarlo non appena si accorge che stanno arrivando degli adulti. Per non parlare di quando i bambini sono al comando, come nella meticolosa, caotica e gioiosa opera di distruzione del costituendo nuovo nucleo familiare da parte dei quattro figli di Brad e Jean in Vedovo cerca moglie (1951), uno dei più invisibili tra i film del regista, cui segue il capovolgimento della situazione con la rovina del piano alternativo dei genitori non appena questi smettono di pensare alla propria felicità, ritenendo di poter ridurre sé stessi a papà e mamma, e i loro bambini a figli. Il radicale pessimismo di Sirk, incarnato dai musical e dalle commedie non meno che dai suoi melodrammi, traduce l’odio nei confronti delle costrizioni sociali di cui la famiglia con i suoi vincoli, le sue trappole e le sue ipocrisie costituisce la base.
Che i figli in quanto tali rappresentino l’elemento più conservatore in molti dei suoi film è abbastanza evidente: inseriti in un ordine sociale opprimente e apparentemente inscalfibile, non fanno nulla per abbattere le cause dell’infelicità dei genitori né per modificare quello che contribuiscono a costruire come il loro identico e inevitabile destino. L’esempio più celebre è rappresentato dai terribili figli di Cary (Jane Wyman) in Secondo amore (1955), pronti a rinchiudere la madre nella scatola di una tv piuttosto che concederle la possibilità di una nuova vita socialmente disdicevole insieme a Ron Kirby (Rock Hudson). L’immagine, com’è noto, avrebbe colpito particolarmente Rainer Werner Fassbinder, che la rimise in scena in modo ancora più violento in La paura mangia l’anima (1974). Ma vale la pena ricordare, tra i tanti esempi possibili, anche l’implacabile disapprovazione dei figli di Clifford Groves (Fred MacMurray) nei confronti del padre in Quella che avrei dovuto sposare (1956), biasimo che spinge Norma Vale (Barbara Stanwyck) a riprendere un aereo e volare via lontano per sempre, consentendo così la ricomposizione del nucleo familiare e presentando in modo spietato la peculiare concezione di happy end di Douglas Sirk.
Le case, grandi protagoniste dei suoi film, non sono altro che un’estensione materiale della società e della famiglia. Ecco perché quando i bambini non sono figli (nel senso in cui dovrebbero o ci si aspetterebbe da loro che fossero) si muovono spesso in spazi aperti, lontani dal controllo degli adulti. In Portami in città (1953) i piccoli Cornelius, Peter e Bucket sono tutto meno che bambini cattivi, ma la loro azione è volta nondimeno alla sovversione di un destino segnato per il pastore vedovo Will Hunt (Sterling Hayden). Non vogliono saperne infatti di vedere il padre sposare la bigotta Mrs. Edna Stoffer, che aspira a prendere il posto della loro madre; non amano il paternalismo degli altri abitanti del villaggio che li accarezzano con accondiscendenza. Il loro perenne movimento crea scompiglio nella cittadina di Pine Top, e la loro ostinazione li porterà a difendere contro ogni buon senso e contro tutti gli abitanti del villaggio la scandalosa Vermilion O’ Toole (Ann Sheridan), convinti che – qualsiasi cosa ne pensino gli altri – sia l’unica donna in grado di rendere felice il padre.
In maniera analoga, con uno stesso sguardo libero e disinteressato nei confronti della realtà, noncurante delle aspirazioni sociali della madre e riuscendo così a disinnescare l’atmosfera oppressiva della casa, ne Il capitalista (1952) la piccola Roberta (Gigi Perreau, interprete di quattro film di Sirk, attrice che meriterebbe di essere menzionata tra le star del suo cinema) è l’alleata numero uno di Samuel G. Fulton (Charles Coburn), il miliardario che sotto mentite spoglie si infila in casa della sua famiglia per verificare se lasciare o meno ai Blaisdell la sua eredità. Castellano definisce questo film «una parabola brechtiana rivisitata da Frank Capra». Roberta si distingue così dai due figli veri e propri, ovvero la sorella Millie (Piper Laurie) – che, pur perplessa, finisce con l’assecondare i sogni di gloria della madre sacrificando il suo amore nei confronti di Dan (Rock Hudson, qui al primo film con Sirk) – e il fratello Howard (William Reynolds, figlio per eccellenza anche in There’s Always Tomorrow e All That Heaven Allows), più interessato ai soldi e al successo che ad altro. In una delle sequenze del film Roberta trascina il vecchio capitalista sul balcone della casa, offrendo una prospettiva all’aria aperta che lascia la madre sullo sfondo al piano di sotto, e comincia a cantare e ballare insieme a lui il refrain di When The Red Red Robin Comes Bob Bobbing Along (“I’m just a kid again, doin’ what I did again, singing a song”). Continuerà a cantare e ballare anche in seguito, specialmente quando tutti i piani della famiglia andranno a rotoli, dopo aver graziosamente vandalizzato le statue di marmo del salotto che raffigurano Dafni e Cloe (eco ironica al tema degli amori contrastati della coppia, scrive Eisenschitz) con barba e baffi.
Se è vero che nel cinema di Sirk sia i bambini sia i figli sono spettatori delle vicende del mondo degli adulti, se entrambi si ritrovano dunque a guardare gli eventi da personaggi per lo più marginali, ciò che rende irriducibili gli uni agli altri è il fatto che i primi sono aperti al mondo e alle possibilità, i secondi chiusi nella società e nel giudizio. E questa contrapposizione tra mondo e società, che più tardi per Serge Daney riassumerà sostanzialmente l’alternativa tra cinema e televisione, è tutto tranne che un’astratta contrapposizione dialettica e rappresenta invece un posizionamento preciso, un’autentica Weltanschauung alla luce della quale rileggere anche molti altri aspetti del suo cinema.
I bambini che costellano la filmografia di Sirk sono una possibile via di fuga dall’ordine sociale – qualcosa di simile a ciò che si potrebbe definire come speranza. Ma sappiamo anche, tuttavia, che per Sirk il ricorso al concetto di speranza è possibile solo nella più profonda e assoluta disperazione, come ricorda Jon Halliday alla fine della sua introduzione a Lo specchio della vita:
Si era sempre sentito preda del destino. Il suo grande senso dell’umorismo aveva spesso un retrogusto di malinconia. Una volta, al telefono con Hilde, avevo provato a scandire lettera per lettera un indirizzo che conteneva la parola “Stanhope”. Hilde mi chiese: “Come si scrive?”. “Stan”, come Stan Laurel di Stanlio e Ollio, dissi; e “hope” come hope, speranza in inglese. Dopo una breve pausa sentii la voce gutturale di Douglas farsi avanti: “No-o”, disse lentamente e con fermezza. “Hope” come in “despair” (disperazione).
Riferimenti bibliografici
J. Halliday, D. Sirk, Lo specchio della vita, ed. it. a cura di A. Inzerillo, Il Saggiatore, Milano 2022.
S. Daney, J.-L. Noames (Louis Skorecki), Entretien avec Douglas Sirk, “Cahiers du Cinéma”, n. 189, aprile 1967.
R.W. Fassbinder, Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk, tr. it. di G. Spagnoletti, in J. Halliday, D. Sirk, Lo specchio della vita, cit..
A. Castellano, Douglas Sirk, La Nuova Italia, Firenze 1987.
B. Eisenschitz, Douglas Sirk, né Detlef Sierck, Les éditions de l’œil, Parigi 2022.
T. Ryan, The Films of Douglas Sirk. Exquisite Ironies and Magnificent Obsessions, University of Mississippi, Jackson 2019.