«It’s like in Nam» sussurra un giovane poliziotto guardando le strade devastate di una metropoli. È come in Vietnam, certo, ma siamo a Detroit nel luglio del 1967. Precisamente nei giorni delle ribollenti tensioni razziali tra afroamericani e forze dell’ordine esplose nella celebre “rivolta della 12th Street”, con l’occhio dei media che piomba dall’alto e innerva di stilemi spettacolari ogni testimonianza di quei tragici eventi (43 morti, più di 1000 feriti). Ecco: sono queste le coordinate storiche e immaginarie che attraversano Detroit, film apparentemente lontano dalle ossessioni ricorrenti nella filmografia di Kathryn Bigelow, eppure capace di ri(n)tracciarne straordinariamente un’origine.
Iniziamo da qui: la complessa storia afroamericana – dall’abolizione della schiavitù ai secoli successivi di migrazioni interne seguendo lo sviluppo industriale, per arrivare infine alla disoccupazione diffusa nei quartieri-fortezza – è confinata nei primi due minuti di film e premediata nel montaggio delle illustrazioni pittoriche di Jacob Lawrence (animando il dinamismo cubista delle Migration Series). L’immagine storicizzata di questo sguardo afroamericano anticipa politicamente le immagini cinematografiche di Bigelow, riflettendo (su) un trauma “comune” e “contemporaneo”.
E poi il caos: il 23 luglio 1967 un bar senza licenza dove si festeggia un reduce dal Vietnam è sgomberato dalla polizia; le proteste degli esasperati abitanti del quartiere esplodono in una dura insurrezione all’esterno del locale; le forze dell’ordine iniziano a operare arresti di massa. Il film configura quest’esperienza immersiva e sinestesica sfruttando al massimo il nervoso realismo percettivo tipico del direttore della fotografia Barry Ackroyd (che non a caso ha profondamente influenzato lo stile registico di Paul Greengrass e della stessa Bigelow nei loro ultimi film). Nelle strade di Detroit, pertanto, si rintraccia anche una rivoluzione nel modo di testimoniare i fenomeni: i reportage sull’estate del ‘67 e quelli dal fronte vietnamita segnano una cesura immaginaria importante, confinando gli eventi in uno schermo televisivo e montando le tracce mediali come in “un film”.
E oggi? Kathryn Bigelow sa perfettamente che l’odierna ricostruzione finzionale non può fare a meno di riflettere sulla piena disponibilità delle immagini del passato, quindi nel costante confronto con immagini d’archivio facilmente reperibili su YouTube. Ecco che i reportage fotografici e televisivi sui fatti (compreso lo storico Nbc News Special Report: Summer of ‘67) balenano in fertile dialettica intermediale con le tracce finzionali. Continui scarti tra immagini in cui si percepisce addirittura il rispetto di una continuità visiva, proprio in un film che per il resto rompe ogni sutura di sguardo.
Eccoci tornati al cuore della riflessione che la regista porta avanti almeno dallo squid di Strange Days (1995) in poi: è solo tra le immagini, tra i formati, tra i dispositivi e tra le tracce mediali, che si può stabilire una possibile relazione (un ultimo raccordo?) con il cinema classico americano e con quel regime di sguardo. Del resto il 1967 è anche l’anno di uscita di Gangster Story (Arthur Penn) e Il laureato (Mike Nichols), l’anno simbolico della nascita della New Hollywood, l’anno che impone un canone moderno al cinema americano e l’anno che muta per sempre le coordinate del war movie da cantore dell’eccezionalismo ad abisso apocalittico. E le inquadrature di Detroit sembrano essere consapevoli di tutto questo magma immaginario passato, restituendoci però un’esperienza estetica tutta contemporanea.
Chiediamoci ora: in questo caos dei segni, in questa rivolta di strada sedata con violenza brutale da poliziotti che sparano alle spalle dei rivoltosi vomitando istinti razzisti: chi guarda? Una piccola sequenza può fornirci validi indizi: mentre John Conyers (noto politico afroamericano) tenta di quietare gli animi inneggiando al dialogo, la situazione degenera e il quartiere è invaso; un servizio televisivo d’epoca mostra il governatore del Michigan Romney dichiarare l’intervento della Guardia Nazionale e dei carri armati; un soldato punta il mirino di un cannone verso i palazzi che lo circondano; in un appartamento limitrofo una bambina sposta l’anta della sua finestra per guardare giù; nello stacco successivo il soldato nota il riflesso della finestra e urla: «Sniper on the window!» esplodendo un colpo distruttivo.
Il controcampo osceno di quella cannonata non lo vedremo mai, la sutura di sguardo è rotta e una sfocatura ci riporta sulle strade in fiamme del quartiere. Insomma per Bigelow non ci può essere più un raccordo tra lo sguardo oggettivato e mediato dall’arma e i suoi effetti traumatici che restano nelle pieghe dell’immagine, esattamente come succedeva nell’incipit di The Hurt Locker (2008) a Baghdad. Ma ragionare su quesiti così urgenti sfruttando gli stilemi del war movie post 11 settembre (e rintracciandone l’origine nelle rivoluzioni sociali e mediali del 1967) diventa una lucidissima presa di posizione politica sull’oggi.
Inizia ora un altro film. Dopo i primi trenta minuti di caos compositivo Detroit si rinchiude nell’hotel Algiers e trova finalmente i suoi “protagonisti”, alludendo a un singolo episodio realmente accaduto. Il dubbio etico sulla ricostruzione dei fatti basata solo su testimonianze orali e finzionalizzata in un “racconto”, viene intelligentemente posto e avvertito da noi spettatori in un cambio di registro nelle modalità compositive. Ma sono ancora una volta le dinamiche dello “spettacolo” a fornirci una possibile interpretazione: la musica dei The Dramatics e il sogno di quei quattro ragazzi afroamericani viene interrotto e sporcato di sangue nei pestaggi dell’Algiers; il cinema sopraggiunge poi con gli stilemi della blaxploitation e dell’horror politico anni ’70, contaminati infine dal dramma giudiziario che rovescia il mito classico di Atticus Finch e Mister Smith.
Ecco che alla dialettica tra immagini, modalità compositive e regimi di sguardo, si aggiunge quella tra i generi del cinema hollywoodiano e della serialità televisiva facendo di Detroit un onnivoro ipertesto aperto a ogni interpretazione. I tre spietati poliziotti razzisti – che nell’albergo torturano i clienti afroamericani per estorcere fantomatiche informazioni e poi dileggiano due ragazze bianche etichettandole come prostitute – simulano costantemente uccisioni esemplari per creare terrore. In quelle simulazioni emerge però un Reale osceno, l’indifferenza per la morte, l’anestesia di ogni percezione. Eccoci al punto: sia negli iniziali tumulti della 12th Street (dove balenano innumerevoli fonti documentali) sia negli spazi angusti dell’Algiers (dove si torna a un regime interamente finzionale), Kathryn Bigelow arriva a configurare la stessa immagine mancante di un trauma.
Cosa resta, quindi, in fuori campo? L’America di oggi. La polarizzazione immaginaria Trump-Obama che spopola sui social media. Nel fuori campo di Detroit si agitano gli istinti (non) sopiti nelle rivolte di Ferguson del 2014 o negli scontri tra afroamericani e forze dell’ordine nella summer 2016, spesso ripresi con dispositivi portatili e poi visti sul web in una bassa definizione perturbante e traumatica. Detroit è un film che chiude l’ideale trilogia con The Hurt Locker (2008) e Zero Dark Thirty (2013), segnando da un lato il pericolo di una dilagante mediatizzazione nella testimonianza dei fenomeni e dall’altro una possibile mediazione estetica che possa ancora riflettere attraverso le immagini. Perché il cinema resta l’unico (fuori) campo ancora possibile, l’unico raccordo ancora configurabile, l’unica immagine che riflettendo apertamente su tutte le altre immagini… ci ri-guarda ancora.
Riferimenti bibliografici
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.
R. Grusin, Radical Mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, a cura di A. Maiello, Pellegrini, Cosenza 2017.