«Non si sa chi riposi oggi nella tomba che reca l’iscrizione “Memoriae Renati Descartes” […] nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Quasi certamente non si tratta del filosofo. Il luogo in cui si trovano i suoi resti è sconosciuto». Prende le mosse dal mistero irrisolto del corpo di Descartes Steven Nadler nel suo ultimo lavoro sul filosofo francese: Descartes e il rinnovamento della filosofia (Einaudi, 2024).
Che ne è stato del corpo di Descartes? Ma ancor meglio: che ne è del corpo in Descartes? Non è questa, in fondo, la questione cruciale che la prima domanda evoca? Si tratta di un interrogativo che lentamente si fa avanti tra le pagine di Nadler, interrogativo suscitato da un’opera che ruota attorno a un nucleo preciso: l’esperienza di vita del filosofo moderno che più di ogni altro – almeno da manuale – avrebbe “condannato” l’esperienza. La “carne” del filosofo che, erede di una certa tradizione platonico-cristiana, avrebbe “ripudiato” la carne e le opacità del sensibile per ritornare all’evidenza chiara e luminosa del Cogito.
A questo punto, se appare impossibile ritrovare il corpo di Descartes, l’operazione di Nadler tenta di dare alla sua filosofia un corpo. Dare un corpo a Descartes significa allora restituire la portata innovativa del suo pensiero inscrivendolo nell’orizzonte più ampio della storia del Seicento, ricostruendo non solo il fermento intellettuale di un panorama scientifico che sta gradualmente prendendo congedo dalla Scolastica, ma anche lo sfondo religioso-politico di un’Olanda in ascesa nel continente europeo.
Ridare corpo a Descartes, inoltre, significa riagganciare la testa alle altre membra del suo Sistema: riconnettere il suo più noto lascito filosofico alle ricerche fisiche e biologiche che hanno occupato gran parte della sua vita in una tensione sempre viva ad una conoscenza onnicomprensiva della realtà.
Ne emerge il ritratto di un Descartes innamorato della solitudine che più si addice all’otium dello studioso, ma che per questa ragione non disdegna la compagnia di un prete e di un pittore o la corrispondenza con una principessa, corrispondenza che fungerà da ulteriore pungolo alla riflessione tanto da fruttare la composizione de Le passioni dell’anima. Un ricercatore della verità tutt’altro che disposto ad accogliere quella nota convinzione ascetica del Tao Te Ching per la quale «senza guardare fuori dalla finestra puoi conoscere le Vie del Cielo». Un «girovago» incallito che ama cambiare ripetutamente dimora, per niente restio ad abbandonare la natia Touraine per la più tollerante Olanda sino a spingersi, pur con qualche remora, nel «paese degli orsi, tra rocce e ghiacci»: la Svezia della regina Cristina alla cui corte concluderà i suoi giorni.
Se l’esperienza di vita, soprattutto nella forma esemplare del viaggio, funge da pretesto alla ricerca e con questa si intreccia sin quasi a coincidervi, un’altra esperienza si rivela imprescindibile nell’indagine cartesiana della physis. È l’esperienza «ordinata e matura» del Novum Organum baconiano: l’esperimento.
«L’enfasi posta da Descartes sull’intelletto e la ragione, la sua ricerca della certezza assoluta e l’uso costante del termine “deduzione” […] hanno fatto nascere l’idea che fosse una sorta di iper-razionalista che rifiutava qualsiasi appello all’esperienza e alla sperimentazione per acquisire la conoscenza del mondo». Un’idea che avrebbe condotto a «un’errata caratterizzazione, non infrequente nella letteratura popolare» di una «scienza cartesiana totalmente aprioristica». Al contrario, le osservazioni del Discorso smentirebbero quella che è la «caricatura» di un metodo di ricerca che, in sintonia con l’allora neonata scienza sperimentale, fa dell’osservazione e della sperimentazione i momenti «cruciali» nel cammino della conoscenza (ivi, pp. 86-87).
Sempre in linea con i principi di questa nuova scienza, anzi anticipandone talvolta le intuizioni più canoniche, la filosofia della natura di Descartes “materizza” la materia, ripulisce la natura da tutte le incrostazioni animistiche, da quei residui di antropomorfismo e di finalismo derivanti dalla tradizione aristotelica, pervenendo a un meccanicismo che Newton avrebbe sostenuto anni più tardi pur rifiutandone le implicazioni più squisitamente materialiste. Paradigmatica è, a questo proposito, la spiegazione del fenomeno della gravità. Formulando la legge di gravitazione universale, Newton introdurrà il concetto di forza d’attrazione. Descartes, invece, sembra ancora incapace di immaginare la causa per cui i corpi sono attratti verso il centro della Terra senza ricorrere alla materia. Postula pertanto l’esistenza di particelle più leggere che, muovendosi verso l’alto con maggiore vigore, spingerebbero le componenti più pesanti della materia verso la Terra.
Ad oggi costituirebbe un ragionamento al limite del bizzarro, ma perfettamente in linea con un pensiero scientifico che intende scongiurare a qualsiasi costo “gli spettri” dell’ilemorfismo aristotelico che si potrebbero insidiare nel momento in cui si ammettono forze ed energie cosmiche per spiegare i fenomeni della natura.
«La sua metafisica svuota il regno corporeo di tutti gli elementi spirituali o mentali. Nel mondo fisico non ci sono forme attive e immateriali, qualità o poteri […]. La distinzione esaustiva ed esclusiva di mente e corpo – tutto o è mentale o è fisico e tutto o è mentale o è fisico – fornisce il corretto fondamento metafisico per l’immagine meccanicista del mondo. Tutto ciò che avviene nel mondo fisico è e deve essere spiegato solo attraverso i principi materiali».
La fisica di Descartes toglie alla natura il volto dello spirito e dell’uomo. È forse a partire da Descartes che la materia diviene materia e il corpo può dirsi realmente corpo, estensione inerte, machina disanimata: forse più corpse che corpo. Non a caso Walter Benjamin, introducendo l’ossessione dell’estetica secentesca per il motivo del cadavere, sottolinea il lato tipicamente «barocco» del dualismo cartesiano. Lo scandalo di questo dualismo, scandalo che anche il pensiero contemporaneo si preoccupa costantemente di abiurare, sorge effettivamente dal problema di “rianimare il cadavere”. Non si tratta solo di rifondare l’edificio della conoscenza sui pilastri del cogito. Descartes si spinge ben più avanti in quel salto prodigioso quanto azzardato che sarà motivo dello scherno hobbesiano.
Negando l’anima del mondo, il Descartes delle Meditazioni deve riammettere l’anima almeno nell’uomo: un’anima che, al contrario del corpo, non sia sottoposta al meccanismo cieco (e crudele) delle leggi di natura che prescrivono la composizione e la decomposizione, ma sia res a sé stante, sostanza immortale, e poter quindi conciliare i principi della sua nuova filosofia con quelli di un cattolicesimo di cui si dichiarava ancora professante. Ma il potenziale eretico delle intuizioni cui approda la ricerca di Descartes emerge comunque ed esplode con tutta la sua forza attraverso il “polverone” di polemiche, critiche e dispute universitarie sollevato dalla diffusione del suo pensiero. La ricostruzione minuziosa e talvolta colorita che Nadler ci restituisce di questi dissidi non è un vezzo dello storico della filosofia innamorato di colui che fu a tutti gli effetti il padre della modernità. Né risponde soltanto all’intento di “dare carne al suo pensiero” e restituire un Descartes più uomo che filosofo, affidandosi anche all’elemento del gossip e delle controversie in una sorta di captatio benevolentiae del lettore meno allenato in questioni filosofiche disciplinari. In realtà, dietro il racconto dei conflitti tra Descartes e gli intellettuali del suo tempo, c’è in gioco qualcosa di più di una storia della filosofia disposta ad indossare la sua veste più pop per rispondere a un nobile intento divulgativo. Si tratta di restituire la grandezza e la portata eversiva di un pensiero proprio nelle sue aporie, aporie che emergono ancor di più nelle frizioni con l’ortodossia dell’epoca.
Quali “insidie materialiste” celasse il meccanicismo cartesiano lo dimostra ad esempio la critica di Libert Froidmont, filosofo e teologo conservatore dell’epoca, «preoccupato dal fatto che l’aver eliminato le forme sostanziali, tanto negli animali quanto negli esseri umani, come faceva Descartes, e ridotto le funzioni del corpo a semplici operazioni meccaniche, “apre agli atei la strada per escludere dal corpo umano anche l’anima razionale”» (ivi, p. 94).
Ci penserà un altro novator del Seicento a cogliere, forse anche in maniera più coerente, i frutti ancora acerbi dell’eresia cartesiana. Sarà Spinoza, di cui – a detta dello stesso Nadler – Descartes fu «padre spirituale», ad espungere totalmente dalla Sostanza eterna gli ultimi residui antropomorfi (e antropocentrici) che il filosofo francese ancora ammetteva: il trascendente Dio-persona che agisce secondo una volontà libera, l’anima come sostanza immateriale e immortale, privilegio esclusivo dell’umano in un regno di esseri viventi ridotti alla stregua di machinae. Sarà Spinoza a inaugurare una nuova visione della natura, natura che già in Descartes è meccanismo cieco in cui la mens del cogito è forse quel sovrano che ribadisce con forza i propri diritti, sul punto di essere spodestato da un mondo in cui già non trova più posto.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco in Opere Complete II, Einaudi, Torino 2001.
R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, Bompiani, Milano 2005.
S. Nadler, L’eresia di Spinoza. L’immortalità e lo spirito ebraico, Einaudi, Torino 2005.
S. Nadler, Descartes e il rinnovamento della filosofia, Einaudi, Torino 2024.