
Sono passati quaranta anni dalla pubblicazione del primo volume sul cinema di Deleuze, Immagine-movimento, un testo che ha avuto una influenza enorme negli studi di teoria ed estetica del cinema e che tuttavia sembra non essere stato ancora del tutto compreso. Si tratta infatti di un libro sulle diverse tipologie di immagine cinematografica, ma anche di un testo di ontologia, che descrive il fluire della sostanza dell’essere e i suoi diversi modi, e persino di un volume storico-filosofico, che commenta da vicino alcune parti dell’opera di Bergson. La possibilità del sovrapporsi di queste diverse linee in un unico libro è data proprio dall’autore appena citato, cui Deleuze aveva già dedicato una raccolta di saggi quasi vent’anni prima, e in particolare dal suo testo Materia e memoria che propone un nuovo significato del concetto di immagine a cui Deleuze aderisce completamente. Tanto che i due libri sul cinema possono anche essere letti come una via d’accesso originale e privilegiata alla filosofia di Bergson e, nello stesso tempo, come un avvicinamento al pensiero di Deleuze che possiede il vantaggio dell’esibizione immediata delle sue radici filosofiche. È la nozione di immagine la causa in comune tra i due autori che produce una sorta di indiscernibilità dei punti di vista tra i due (discorso libero indiretto, enunciazione collettiva), consentendo a Deleuze un commento al tempo stesso puntuale e spregiudicato e la stesura di un libro così stratificato e ricco.
Se le quattro tesi sul cinema di Deleuze – due sul movimento nel primo volume e due sul tempo nel secondo, Immagine-tempo – vengono esposte come commenti al pensiero bergsoniano, a essere mutuata da Materia e memoria è in primo luogo la stessa nozione di immagine. Questa nell’opera di Bergson definisce la materia nella sua realtà e nel suo fluire, così come viene intesa dal senso comune giustamente restio ad accettare le ipotesi del realismo ingenuo e dell’idealismo severo. La materia è un insieme di immagini, e immagine significa una cosa la cui esistenza non è totalmente indipendente da chi la percepisce (la res dei realisti), ma anche un oggetto che esiste e non solo in quanto percepito (la rappresentazione degli idealisti). Prima di ogni filosofare, di ogni realismo o idealismo, si parla allora di immagine, così scriveva Bergson nella Prefazione alla settima edizione del libro: «… Per immagine intendiamo una certa esistenza che è di più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa – un’esistenza situata a metà strada tra la “cosa” e la “appresentazione”» (Bergson 1896).
Nel libro di cui ci occupiamo questa materia fatta di immagini – entità né solide né evanescenti, concrete ma in divenire – è il piano dell’essere e nello stesso tempo il piano cinematografico, entrambi caratterizzati da un divenire così costitutivo da indurre Deleuze a inserire un trattino tra i due termini, immagine e movimento. Non immagini in movimento, ma immagine-movimento, non essere in divenire ma un essere che è divenire. È solo a partire da questa vicinanza sostanziale che è possibile per Deleuze prendere le mosse da Bergson e, paradossalmente, dalla sua critica nei confronti del cinema, definito nell’ultimo capitolo dell’Evoluzione creatrice come un esempio tipico del falso movimento. Scriveva Bergson: «Questo è l’artificio del cinema e anche quello della nostra conoscenza. Invece di accostarci all’intimo divenire delle cose, ce ne poniamo all’esterno per poi ricomporre il loro divenire in maniera artificiosa» (Bergson 1907). Siamo nel 1907, ed è una delle prime volte che il cinema viene inserito in un testo di filosofia così importante, di un autore consacrato, ma è inserito come esempio che illustra un modo scorretto di descrivere il tempo.
Deleuze riprende queste pagine usando Bergson contro Bergson, per affermare invece il bergsonismo profondo dell’arte cinematografica, in quanto immagine cui il movimento, inteso come imprevedibilità e creazione, appartiene costitutivamente. Il cinema non è infatti una somma di sezioni immobili ricomposte a posteriori con l’aggiunta del movimento, in quanto la mobilità appartiene già alla sua unità più piccola, al piano-sequenza. Gli istanti immobili del falso moto sono sostituiti nel cinema dai piani, da sezioni mobili in se stesse che, determinando i rapporti tra gli elementi dell’insieme, qui definito, selezionato dall’inquadratura, allo stesso tempo modificano qualitativamente l’intero film. Il piano cinematografico è quindi per Deleuze una sezione di quel divenire che nel pensiero di Bergson prende il nome di durée, una durata che esperisce un continuo cambiamento qualitativo.
L’idea del cinema come adesione al reale nella sua imprevedibilità, e dunque come dispositivo la cui specificità è quella di restituire il movimento e la durata, è presente prima ancora che nel pensiero di Deleuze nella riflessione di André Bazin. Ma qui, in Immagine-movimento, questa coincidenza ontologica viene portata avanti con radicalità e articolata nel corso di tutto il libro. Il movimento come trasformazione qualitativa si esplica secondo Deleuze in due diverse direzioni, l’una relativa, l’altra assoluta: verso ciò che viene inquadrato, come costituzione di rapporti all’interno di un sistema chiuso, e insieme verso il tutto, determinato da un montaggio che è già prefigurato, presentito nel piano, esprimendo così la durata che non cessa di cambiare. Il piano, l’immagine-movimento, è la sezione mobile della durata, traslazione delle parti, cambiamento del tutto. Tuttavia, se l’inquadratura determina sempre, nel suo costituirsi, un fuori-campo – che non è solo prolungamento della scena, un “altrove relativo”, ma anche, soprattutto, un “altrove più radicale”, una “dimensione dello spirito” – la durata del film è insieme apertura all’assoluto. Sarà il montaggio, operando sulle figure già in moto, a trarne fuori l’idea, la durata; le sezioni mobili si costituiscono così in immagine del tempo, un’immagine indiretta, poiché dipendente, subordinata al movimento.
In questo piano inteso come unità in movimento (che altrove nel pensiero di Deleuze aveva preso altri nomi, per esempio quello di piano di immanenza) le interruzioni del montaggio, a ricordare che da un lato vi sono le parti e la loro relativa corrispondenza all’interno di un sistema, ma che il Tutto è altrove. Queste fratture nel montaggio non testimoniano della discontinuità del cinema, ma ricordano invece una continuità diversa: quella, assoluta, della durata. Ecco allora le parole di Deleuze al riguardo presenti nella prima parte del libro che stiamo celebrando, con cui concludo:
L’unica generalità del montaggio è che esso mette l’immagine cinematografica in rapporto con il tutto, cioè con il tempo concepito come l’Aperto. In tal modo esso dà un’immagine indiretta del tempo, nell’immagine-movimento particolare quanto nel tutto del film. Da un lato è il presente variabile, e dall’altro l’immensità del futuro e del passato (Deleuze 2016).
Riferimenti bibliografici
H. Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 1996,
Id., L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2002.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.