Tra il novembre del 1981 e il giugno del 1985, Deleuze tiene a Vincennes una serie di corsi sul cinema. Chiamato da Michel Foucault prima e da François Châtelet poi ad insegnare in uno spazio universitario sperimentale come quello del CUEV (“Centre Universitaire Expérimental de Vincennes”), Deleuze fa lezione il martedì mattina, una volta a settimana; una lezione di tre ore, in uno spazio particolare: un capannone fatiscente, ma abbastanza ampio per contenere tutte le persone che vengono ad assistere ai suoi corsi. Inizia ad insegnare a Vincennes nel 1970 e continuerà a farlo (dopo essere passato nella sede di Saint-Denis) fino al 1987.

In questi anni, i corsi di Deleuze delimitano uno spazio. Uno spazio saturo e al tempo stesso mobile, dove è molto difficile anche semplicemente pensare di replicare la forma classica, frontale, gerarchica, della lezione universitaria, perché lo spazio dei corpi ruota intorno a Deleuze stesso, in un movimento centrifugo e centripeto al tempo stesso. A volte seduto, a volte in piedi, Deleuze sviluppava i suoi percorsi a partire da questioni, da temi, da connessioni. Intorno a lui, vicinissimo e fremente un pubblico eterogeneo, vivo, desideroso di ascoltare ma anche di partecipare, intervenire, discutere. Le lezioni sono organizzate a partire da concetti, da citazioni, da brani di testi, commentati e spiegati da Deleuze in modo articolato e accurato. Il corso non è mai per lui l’esposizione di ricerche effettuate in precedenza, di libri pubblicati (non farà mai corsi sui suoi testi). La lezione è soprattutto un’operazione, qualcosa che la trasforma in officina concettuale. Lo spazio della lezione è di fatto uno spazio-laboratorio, dove mettere a punto quei concetti che saranno poi ripresi nei suoi libri.

Le lezioni di Deleuze circolano da anni sul web, in trascrizioni più o meno lacunose o in video tremolanti. Da qualche anno vengono pubblicate anche in cartaceo da diverse case editrici, in Italia e all’estero. Lo scorso anno, Minuit ha iniziato la pubblicazione “ufficiale” dei corsi di Deleuze a partire dal corso del 1981 sulla pittura (uscito poi in edizione italiana da Einaudi nel 2024). Altri ne seguiranno e nei prossimi anni l’officina deleuziana si mostrerà probabilmente in tutta la sua ricchezza.

Sono però i quattro corsi dedicati al cinema a attirare ora la nostra attenzione. Non ancora pubblicati ufficialmente in Francia (o in Italia), circolano da qualche anno in una edizione in lingua spagnola, pubblicati in quattro volumi usciti in Argentina tra il 2009 e il 2023 per la casa editrice Cactus, in una collana che si chiama non a caso “Clases”. È proprio immergendosi nelle quasi tremila pagine di questi quattro volumi che è possibile toccare con mano il senso di quel processo di messa a punto concettuale che i corsi rappresentavano per il filosofo francese.

Nella lezione introduttiva del primo corso dedicato al cinema, il 10 novembre 1981, Deleuze annuncia che in quel corso si tratteranno tre temi, al tempo stesso distinti e legati tra loro: il primo tema sarà l’analisi di Materia e memoria di Bergson; il secondo l’analisi della Critica del Giudizio di Kant; il terzo, afferma il filosofo, «concerne l’immagine e il pensiero o, più precisamente, il cinema e il pensiero» (Deleuze 2009, p. 18) Tre temi distinti, insiste Deleuze, ma strettamente legati. Quello che emergerà è che c’è una unità di fondo, e che l’unità è data proprio dal rapporto tra cinema e pensiero.

Da una parte, prosegue Deleuze nella prima lezione, Materia e memoria e la Critica del Giudizio sono due opere chiave per il pensiero di Bergson e Kant: il primo perché raggiunge il culmine di un percorso straordinario di ricerca che per la prima volta, nella storia della filosofia (è un testo del 1907) interroga il cinema dal punto di vista filosofico; il secondo perché, afferma Deleuze, è un testo fondante dell’estetica moderna. Kant infatti va oltre la questione del bello (questione centrale per l’estetica del Settecento) per aprire ad una nuova relazione tra immagine e pensiero. Una relazione, aggiunge Deleuze, “precinematografica”, ma «che il cinema, successivamente, potrà confermare» (ivi, p. 20). Bergson chiama quindi in causa il cinema nella sua analisi del rapporto tra tempo e movimento; Kant apre la strada ad un rapporto nuovo (contemporaneo) tra immagine e pensiero, a partire dal concetto di sublime affrontato nella seconda parte della Critica del Giudizio.

Il percorso dunque ha inizio, e l’analisi delle tre tesi sul movimento di Bergson sono il punto di partenza per la trattazione delle immagini specifiche del cinema. Ritroviamo allora, lezione dopo lezione, i concetti che il cinema crea, così come poi troveranno forma definitiva in L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Al tempo stesso, in quasi ogni lezione scopriamo digressioni, parentesi, abbozzi di percorsi che non troveranno spazio nei due libri sul cinema. Ne è un esempio straordinario la lezione del 27 aprile 1982, in cui Deleuze mostra la presenza della piccola e della grande forma – ASA’ e SAS’, le due forme principali dell’immagine-azione, analizzate in L’Immagine-movimento – nella pittura cinese e nella fisica moderna. È un percorso particolare, che da una parte permette al filosofo francese di distinguere tra la fisica newtoniana (in cui domina, dice, la piccola forma), dalla fisica novecentesca (in cui si riflette la grande forma); dall’altra gli permette di mettere in evidenza il rapporto tra pensiero e immagine nei principi della pittura cinese classica. Deleuze riprende qui i sei principi della pittura, redatti dall’artista e teorico cinese Hsieh Ho nel V secolo d.C. In particolare, il filosofo ritrova nel primo principio (il pittore deve immettere nell’opera il “soffio vitale” del mondo), e nel secondo principio (il pittore deve rintracciare nell’opera le connessioni dei singoli elementi tra loro e con l’universo), rispettivamente ulteriori declinazioni della grande forma e della piccola forma.

In questa digressione dunque, Deleuze mette in evidenza come la piccola e la grande forma non siano sono strutture convenzionali di narrazione che il cinema ha messo a punto nel suo periodo classico, ma forme che rispecchiano le dinamiche fisiche degli oggetti del mondo, le teorie scientifiche che le formalizzano e le pratiche artistiche che le rappresentano. Non sfugge il fatto che questo approccio transdisciplinare sembra straordinariamente ejzenštejniano (e in effetti lo stesso Deleuze ricorda come Ejzenštejn abbia più volte citato la pittura cinese), soprattutto per l’esito che una tale prospettiva teorica può avere per il pensiero. Ma è un percorso che Deleuze poi non inserirà nei testi sul cinema, forse consapevole del fatto che esso avrebbe poi portato verso una ulteriore prospettiva teorica tutta da sviluppare.

I corsi di Deleuze dunque non sono precisi e schematici prospetti di libri da scrivere, ma si rivelano essere propriamente la messa a punto dei concetti su cui poi i libri lavoreranno. Man mano che le lezioni del primo corso sul cinema proseguono, il percorso si sviluppa sempre più intorno alla filosofia di Bergson e alle tesi sul movimento di Materia e memoria. Alla fine del corso, l’analisi della Critica del Giudizio annunciata all’inizio non ha avuto luogo. Alla fine dell’ultima lezione del corso, uno studente chiede pertanto se tale analisi sarà svolta nel corso dell’anno seguente. Forse, risponde Deleuze, o forse Kant ritornerà in un corso sulla filosofia classica. «Ma in che senso avrebbe pensato di inserirlo in un corso sul rapporto tra cinema e pensiero insieme a Bergson?» (ivi, p. 575) incalza allora lo studente. Perché Kant, risponde allora Deleuze, introduce in quel testo una questione nuova riguardo il bello in natura. La bellezza non esiste in natura, però noi percepiamo alcune forme naturali come “belle”, dunque c’è una percezione particolare delle forme della natura in noi, ma oltre a questa percezione umana, esistono altre percezioni, meccaniche e insieme umane, come quella fotografica, aggiunge Deleuze. È da qui, che nascono una serie di domande che inizialmente dovevano far parte del corso: «In che cosa la percezione cinematografica è distinta dalla nostra percezione detta “naturale” e che relazione c’è tra loro? Sarebbe forse il caso di chiamare “percezione diagrammatica” questa percezione captata dalle immagini-cinema?» (ibidem). Se l’analisi della Critica del Giudizio non troverà spazio nel lavoro di Deleuze sul rapporto immagine e pensiero, Kant in ogni caso ritornerà, ad esempio quando, nel corso del 1984, Deleuze metterà in relazione la forma seriale godardiana con l’uso delle categorie in Kant. O quando, nel 1985, analizzando la teoria di Christian Metz, mostrerà come quell’impostazione teorica sia profondamente kantiana.

L’immersione nelle pagine dei testi tratti dai corsi di Deleuze sul cinema, in un continuo confronto con i due libri sul cinema, mostra allora, come si diceva all’inizio, la forma processuale, laboratoriale di quell’officina dei concetti che è la lezione. Officina dei concetti che è un’operazione squisitamente filosofica, come sottolinea Deleuze sin dalla prima lezione («in nessun caso potrei pretendere di proporvi un corso sul cinema. Questo è, dall’inizio alla fine, un corso di filosofia» ivi, p. 20); operazione che è quella, come scriverà poi nell’ultima pagina di L’immagine-tempo, di fare la teoria di quella nuova pratica delle immagini e dei segni che è il cinema.

Riferimenti bibliografici
Gilles Deleuze, Sulla Pittura. Corso Marzo-giugno 1981, tr. it. Einaudi, Torino 2024.
Id., Cine I. Bergson y las imagenes. Curso 1981/1982, Cactus, Buenos Aires 2009.
Id., Cine IV. Las Imágenes del pensamiento. Automatismo, semiótica y actos de fabulación, Cactus, Buenos Aires 2023.

Tags     Bergson, Deleuze, Kant
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