Dopo sette anni dal sottovalutato biopic intimista Dont’ Worry (2018), Gus Van Sant torna alla regia con Dead Man’s Wire, un nuovo film tratto da eventi realmente accaduti. Siamo a Indianapolis, nel febbraio del 1977. Il quarantenne Tony Kiritsis si sta recando, visibilmente teso, nella sede della società assicurativa che gestisce il suo mutuo. Vuole incontrare il proprietario della Meridian Mortgage Company ma viene dirottato verso il figlio Richard Hall e decide di prenderlo in ostaggio per urlare le sue rivendicazioni. Inizia così uno show a uso e consumo dei media: Tony costruisce un dispositivo rudimentale attorcigliando al collo dell’uomo un filo di ferro per poi legarlo al grilletto del suo fucile. In questo modo lega il suo destino a quello di Richard instaurando un gioco pericoloso con le forze dell’ordine che accerchiano l’abitazione dove si rifugia insieme all’ostaggio.

Van Sant ha a disposizione molti materiali d’archivio di Tv locali e nazionali accorse sul luogo. Quindi, decide di (ri)girare le sequenze rispettando tempi e modi degli eventi e attivando una feconda dialettica intermediale con il video televisivo a bassa definizione. Tony (interpretazione molto convincente quella di Bill Skarsgård) è un uomo in cerca di riscatto economico e morale per le ingiustizie che pensa di aver subito dall’avidità del suo broker. E Van Sant sembra divertirsi molto a ricostruire la vicenda riattraversando le forme del cinema di impegno civile della New Hollywood, dal montaggio dei thriller politici di Alan J. Pakula ai personaggi nervosi dei film di Sydney Lumet. Le evidenti referenze a Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) e Quinto Potere (1976) sono rafforzate dalla presenza di Al Pacino in un cameo straordinario nei panni dello spietato magnate M.L. Hall. Il film diventa così una lezione di regia cinematografica in termini di economia narrativa, orchestrando una tesissima caccia all’uomo confinata in due stanze e una singola strada di Indianapolis. Un film apparentemente anomalo per Van Sant, in realtà perfettamente inserito nella sua filmografia che fonde le riflessioni sulla società dello spettacolo di Da Morire (1995) con l’impegno civile di Promised Land (2012) e, nel frattempo, asseconda l’istinto da cineasta sperimentale nel dialogo tra supporti e formati dell’immagine (come in Milk, 2008). 

Il cinema di Van Sant, come sempre problematico e mai manicheo, da un lato sottolinea le storture del capitalismo finanziario e dall’altro rende Tony un personaggio ambiguo e sin troppo affascinato dall’universo dei media nel quale cerca una “catarsi pubblica”. Da questo punto di vista il personaggio del Dj Fred Temple (Colman Domingo) fa diventare il film una sorta di jam-session tra i segni modernisti della New Hollywood e i confini del cinema classico incarnato da John Wayne che erompe dallo schermo televisivo in un premio alla carriera. Van Sant fa dialogare queste istanze immaginarie senza un filo di nostalgia, bensì riattivando un archivio di forme per parlare al nostro presente. La dimensione politica del film è attualissima tra avide imprese finanziarie che sedimentano rabbie sociali e il dibattito pubblico dominato dai (social) media che semplificano ogni assunto: il frammento d’archivio finale con il vero Tony Kiritsis che reclama l’inquadratura è vertiginoso.

C’è tutto questo, certo, ma c’è anche quella straordinaria capacità del regista di Will Hunting (1997) di creare caratteri complessi e credibili nelle loro zone d’ombra e nelle loro fragilità. Pensiamo al sincero contatto umano che si instaura tra Tony e Richard, entrambi figli infelici di un padre che ostenta l’oscenità del potere (Pacino incarna il controcampo esatto del personaggio di Sonny in Quel pomeriggio da un giorno da cani). Insomma, Dead Man’s Wire è un film di frenetiche azioni alternate a lunghi primi piani che concedono il giusto tempo di condividere emozioni. Un cinema di persone che si rapportano tra loro stesse essendo consapevoli delle immagini che producono, quindi un cinema magnificamente contemporaneo proprio perché anacronistico

Dead Man’s Wire. Regia: Gus Van Sant; sceneggiatura: Austin Kolodney; fotografia: Arnaud Potier; montaggio: Saar Klein; interpreti: Bill Skarsgård, Dacre Montgomery, Colman Domingo, Al Pacino, Cary Elwes Myha’la; musiche: Danny Elfman; produzione: Elevated Films, Pressman Film, Balcony 9 Productions, Sobini Films, RNA Pictures, Pinstripes; origine: USA; durata: 105’; anno: 2025.

Tags     Gus Van Sant, Venezia 82
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