Basterebbe guardare alle due estremità del racconto, alla natura delle immagini su cui Blue Eye Samurai apre e conclude la propria narrazione, per comprendere quello scontro continuo di forze che governa l’intera storia, e che dà vita al percorso di vendetta della protagonista. Da questa prospettiva, il ferro rovente di un metallo battuto, in attesa di diventare spada – e quindi agente di morte – che vediamo all’inizio del racconto non è solo il contralto fisico del terribile incendio che devasterà sul finale la città di Edo: è la sua sintesi simbolica, l’anticipazione di un disastro che non può in alcun modo essere evitato né disinnescato, proprio perché, alla pari della narrazione che lo contiene, si interfaccia paradossalmente con quell’elemento che dovrebbe a tutti gli effetti neutralizzarlo, e che invece qui partecipa al suo sviluppo: stiamo parlando naturalmente dell’acqua, di cui la protagonista – e quindi la serie che ne racconta le gesta – è al contempo sinonimo e antitesi.
Non è un caso che gli autori di Blue Eye Samurai abbiano perciò assegnato al personaggio centrale il nome Mizu, un termine che non solo può essere tradotto come acqua ma che in Giappone si riferisce a tutto ciò che si trova allo stato liquido. Si potrebbe allora immaginare che l’eponima eroina, in quanto espressione di una materia fluida, si adatti organicamente agli spazi che la “contengono” o agli ostacoli che di volta in volta le si parano sul suo cammino di vendetta: ma come abbiamo appena anticipato, ogni significato o istanza che attraversa il racconto nasce e si sviluppa a partire dal suo contrario. Permettendo così alla serie di invertire il senso logico del discorso, e di restituire coerenza a tutto quel che è anomalo: dal punto di vista estetico, iconografico. E soprattutto in materia di modelli rappresentativi.
A pensarci bene, il racconto ospita sin dall’incipit una contraddizione interna, di natura perlopiù storico-culturale: ci troviamo agli inizi dell’Era Tokugawa, precisamente attorno al 1650. In quel periodo il Giappone era chiuso ad ogni influenza esterna, e il suo popolo era libero da qualsiasi contaminazione razziale.
Eppure in un contesto così etnicamente uniforme e omogeneo, dove tutto si riflette in un’unica e indissolubile forma di autoctonia, vediamo agire una donna atipica come Mizu, dai tratti somatici talmente insoliti da apparire agli occhi della società nipponica quali sintomi di un’anomalia terrificante, quasi mostruosa. Proprio perché richiama un’incongruenza che non ha motivo di esistere alla luce di quell’idea di uniformazione culturale su cui i giapponesi del tempo hanno costruito l’identità (etnica, politica) della propria nazione.
Mizu infatti non riflette solo una contraddizione vivente, ma appare come la manifestazione di un vero e proprio incubo culturale: la sua pelle (solo per metà) caucasica, unita allo splendore di occhi puri come lo zaffiro, la porta ad incarnare l’idea di mostro, di una onryō sanguinaria, che con il suo aspetto da fantasma perseguita i cittadini – e contemporaneamente – le norme stesse della società. Non è un caso infatti che il suo percorso di vendetta nasca sotto il segno di quello che per i nipponici del tempo è un peccato originale: l’unione forzata di una giapponese (canone) e un occidentale (anomalia). Dal frutto di questa violenza sessuale, perpetrata da uno dei quattro commercianti inglesi di stanza nel paese (verso cui la donna scatenerà le proprie mire vendicative) matura il ritratto di un personaggio deliberatamente anomalo, che sfida e confuta le tendenze xenofobe della società: fino ad abbatterne a suon di fendenti le convenzioni su cui fonda la resistenza al diverso – e quindi – a tutto ciò che è estraneo/straniero.
Ed è proprio qui che la serie eccelle, al punto che arriva anche a sottrarre il suo elemento centrale – cioè la violenza – ad una mera questione linguistica, di adesione al genere di riferimento. Certo, Blue Eye Samurai si muove pur sempre nelle maglie dei chanbara (film di cappa e spada con protagonisti samurai/rōnin) per cui deve necessariamente rifarsi a quel tipo di immaginario. Ma la sequela infinita di combattimenti che ne attraversa la storia va ben oltre il semplice rispetto verso un’iconografia rimasta più o meno simile sin dai tempi dei primi film muti con Tsumasaburō Bandō, oppure alla ricerca di una mera legittimazione culturale da parte di un prodotto comunque occidentale; l’adesione alle grammatiche del jidaigeki è da rintracciare, piuttosto, in un orizzonte perlopiù metaforico.
Qui il gesto violento ha infatti un pura funzione simbolica: è ciò che permette a Blue Eye Samurai di gettare luce sulle logiche volutamente contrastanti da cui sviluppa ogni sua riflessione. Sia tematica che iconografica. Al punto che la stessa Mizu, il cui volto viene costantemente scambiato per quello di un uomo in quanto “etnicamente anomalo”, non combatte per onorare la via del guerriero (bushīdo) ma per soddisfare il bisogno apertamente “femminile” – e quindi stigmatizzabile – di vendetta. Portando così la società patriarcale a non accertarne il sesso/genere, e ad attribuire volutamente alla spadaccina dei canoni maschili che disinneschino la sua alterità di donna, in nome di una più convenzionale e gestibile forma di irregolarità culturale.
Da una serie Netflix prodotta negli Stati Uniti e animata dallo studio francese Blue Spirit ci si aspetterebbe il classico sguardo del gaijin, dello straniero che si approccia dall’esterno ad una realtà al contempo immaginata e (culturalmente) distante. Eppure qui nulla è filtrato attraverso le lenti di un binocolo. Anzi. Blue Eye Samurai mostra una grande capacità nell’adottare la prospettiva inversa, al punto che l’immaginario, le atmosfere e le fratture socio-culturali del primo Periodo Edo rivivono sì sullo schermo grazie alla riverenza e alla precisione con cui gli autori le indagano dall’interno: ma soprattutto per la lucidità con cui mettono in connessione reciproca la documentazione storica con l’anacronismo, la fedeltà alla materia con il suo tradimento. Senza per questo perdere la propria specificità di testo-occidentale che re-immagina, alterandola, una storia incontrovertibilmente orientale.
Che Blue Eye Samurai si ispiri profondamente alla produzione animata del Sol Levante, senza per questo privarsi della sua derivazione occidentale, risulta sin da subito esplicito. Se dal punto di vista dell’immaginario la serie si rifà agli affreschi storici di opere quali Rurouni Kenshin (1996-1998) o Samurai Champloo (2004), di cui reitera rispettivamente il gusto spettacolarizzante dell’action e lo sguardo sociologico sul Giappone feudale, l’animazione invece ricalca stilemi più apertamente europei. E lo notiamo tanto nell’iperrealismo in cui sono confinati i corpi-in-decomposizione, quanto nella spigolosità delle linee corporeo-facciali: più dure, nette e taglienti rispetto alle configurazioni sinuose dei character design nipponici.
Ci troviamo allora di fronte ad un prodotto smaccatamente ibrido, capace di riflettere le stesse contaminazioni grafiche degli anime contemporanei, senza però trascendere la patina naturalista tipica delle animazioni europee. E in continuità con Mizu, la quale è confinata in un contesto che non ne accetta, enfatizzandole per contrasto, le anomalie fisiche, anche il racconto si muove in un orizzonte fatto di continue opposizioni (scontri fisici, anime/animazione) e antinomie (orientale/occidentale, fuoco/acqua). Non solo, per l’appunto, stilistiche o iconografiche, ma anche culturali. Quasi come se Blue Eye Samurai, per poter delineare i suoi intrecci, si posizionasse costantemente davanti ad uno specchio: e riuscisse a comunicare gli elementi che lo attraversano, solo dopo essersi specchiato nella sua immagine riflessa.
Blue Eye Samurai. Ideatori: Amber Noizumi, Michael Green; interpreti: Maya Erskine, George Takei, Masi Oka, Brenda Song, Darren Barnet; produzione: Netflix Animation, Blue Spirit; distribuzione: Netflix; origine: USA; anno: 2023.