Assiso sul letto di morte, Dante si appresta ad affrontare quel cammino da lui così vividamente immaginato nell’opera più celebre del canone letterario italiano. Nel buio di una stanzetta angusta, attorniato dai figli e da poche altre figure, il poeta si sta spegnendo tremante nel suo esilio ravennate, a vent’anni di distanza dalla cacciata dalla natìa Firenze. La malaria – contratta probabilmente nelle Valli di Comacchio di ritorno da un viaggio a Venezia – gli lascia giusto un po’ di fiato per pronunciare le ultime flebili parole, che i figli provano a decifrare e restituire agli astanti. Dante di Pupi Avati inizia dalla fine per mettere in scena un’impresa quanto mai ambiziosa: raccontare la vita del più illustre degli italiani illustri, sulla lunga scia delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario dalla sua morte che hanno segnato l’anno passato e a cento anni esatti da un film colossale come Dante nella vita e nei tempi suoi di Domenico Gaido.

È in realtà Giovanni Boccaccio, interpretato da Sergio Castellitto, a raccontare l’esistenza del poeta fiorentino, a cui presta volto (e ovviamente naso aquilino) Alessandro Sperduti, fatto salvo nella vecchiaia, dove lo impersona Giulio Pizzirani. La scelta del narratore non è arbitraria: Boccaccio scrisse effettivamente la prima biografia dell’Alighieri, De Origine vita studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii fiorentini poetae illustris et de operibus compositis ab eodem, da lui più brevemente definito Trattatello in laude di Dante, la cui prima versione a stampa del 1477 recava il semplice titolo Vita di Dante, sopravvissuto sino a noi. Lo scrittore certaldese lavorò a questo testo dopo il 1351 e successivamente per una seconda redazione nel 1360, raccogliendo informazioni da persone che avevano incontrato Dante, operando su un crinale incerto tra investigazione filologica e agiografia ingenua.

Profondo ammiratore del poeta fiorentino, Boccaccio fu incaricato dal governo di Firenze nel 1350 di portare a Ravenna alla figlia Beatrice Alighieri dieci fiorini d’oro come compensazione per l’ingiusto esilio inflitto al padre, pregandola di accettare le scuse della città ingrata. È proprio questo viaggio che il film in realtà racconta, facendo emergere la vita di Dante retrospettivamente attraverso i racconti di chi lo aveva conosciuto. È chiaro il modello d’ispirazione della struttura narrativa, Citizen Kane (1941) di Orson Welles, l’archetipo del cinema biografico moderno, benché il segreto pronunciato in punto di morte non rimarrà irrisolto per i personaggi.

Affrontare la vita di Dante da questo punto di vista chiama in causa l’idea stessa di origine, ed è questo il nucleo attorno al quale ruota tutta la narrazione, che parte proprio dalla morte come conclusione dell’esistenza e insieme come momento di scaturigine della doppia linea del racconto biografico, verso il passato e verso il futuro. Se Dante viene comunemente considerato il punto di partenza della lingua e della letteratura italiana – o addirittura del “pensiero italiano” – Boccaccio è il rinnovatore della produzione biografica, sino a quel momento non particolarmente florida. Al tempo stesso, costruire lo sviluppo del racconto attraverso la rimediazione del capolavoro wellesiano significa fare i conti con un modello narrativo che apre alla modernità cinematografica, ma anche alla non linearità necessaria dell’impresa biografica quando prende la vita individuale come varco d’accesso a una dimensione concettuale che trascende l’operazione storico-cronachistica. Su questo versante, anche il lavoro sulla messa in scena riflette sulle forme di costruzione del passato alla ricerca di una sorta di originarietà dell’ambientazione, avvicinandosi in certi punti alla rarefazione riscontrabile in un testo così singolare come Gli amori di Astrea e Céladon (2007) di Eric Rohmer.

Il film di Avati, anziché essere segnato da un approccio magniloquente che pure sarebbe stato lecito aspettarsi date queste premesse, si caratterizza infatti per un minimalismo che in qualche modo fa scarto all’interno del panorama biografico odierno. Nelle ambientazioni in esterni – nulla è girato in studio – i campi sono necessariamente sempre stretti, evitando ogni soluzione di impatto scenografico di ricostruzione del mondo medievale. Quello che vediamo non è dunque il passato, ma la traccia del passato che si concretizza nella consunzione delle superfici visibili. Negli interni, la luce naturale crea un gioco di chiaroscuri che costruiscono lo spazio secondo volumetrie asimmetriche, o al contrario – nelle situazioni diurne – costruisce un’uniformità luministica che rifugge dai facili barocchismi ritenuti spesso più congeniali alla messa in scena della Storia. Allo stesso tempo, le azioni sono minimali, così come trattenuti sono i gesti, salvo alcune sequenze; non a caso, per tutto il film ricorre un uso insistito del ralenti, che raggela movimenti e sguardi dilatando il tempo.

In questo approccio minimale, non tutto sembra funzionare alla perfezione. Lo slow motion è troppo presente, così come lo sono le dissolvenze incrociate, mentre ingombranti risultano la colonna sonora e le scene di impronta onirico-surreale, come Beatrice che mangia un cuore o le luci finali che uniscono lucciole e stelle. Tuttavia, questa rarefazione stilistica consente di far risaltare due linee che costruiscono un motivo di interesse per l’orizzonte del biografico contemporaneo.

La prima è di matrice linguistica. Nei lunghi titoli di testa che (piuttosto insolitamente) aprono il film, spicca il numero di consulenti scientifici che hanno collaborato alla realizzazione dell’opera. Se un comprensibile motivo di preoccupazione spettatoriale nell’approccio preliminare a questo film può riguardare la lingua parlata, da questo punto di vista il lavoro sui dialoghi è molto efficace: non ci sono particolari accenti regionali – nemmeno un fiorentino di maniera – ma nemmeno un’impostazione vocale troppo asettica. Il tentativo sembrerebbe piuttosto essere quello di adattare al presente il volgare dantesco, trovando un compromesso equilibrato tra una lingua che appare vicina ma non prossima, quotidiana ma sufficientemente estranea. Il biografico, in fin dei conti, è sempre sotto il segno dell’anacronismo e accettarne la sfida è comunque un’operazione di coraggio intellettuale.

Il secondo aspetto degno di nota è la natura metabiografica del film, insieme alle conseguenze che si determinano. In un certo senso, infatti, Dante è una biografia dedicata alla scrittura di una biografia (e il film avrebbe potuto anche chiamarsi “Boccaccio”). Non tutta la vita del poeta viene tuttavia ripercorsa, ma solo quella anteriore all’esilio, cioè al 1301, salvo pochi brevi momenti finali, oltre alla morte già citata. Paradossalmente, visto che si tratta della porzione più lontana rispetto al presente della narrazione, ma da un certo punto di vista comprensibilmente, dato che quella data è anche l’inizio della stesura della Comedia, l’opera che in qualche modo ne segna il destino, almeno postumo. Dante appare così solo marginalmente come poeta e la scrittura occupa un posto quantitativamente di scarso rilievo nell’economia del racconto. Di Dante si narrano ad esempio le gesta come soldato e come politico, ma soprattutto le complesse e infelici relazioni con Guido Cavalcanti e Beatrice Portinari (la cui identificazione anagrafica si deve proprio al testo del Boccaccio). Da questo punto di vista, notevole è la distanza con Giacomo Leopardi di Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone.

Per Avati Dante è insomma un poeta in potenza, convocato quasi esclusivamente dal commento di Boccaccio che invece esterna in continuazione l’assoluta ammirazione per la sua opera, ma anche per la sua caratura morale, a maggior ragione di fronte all’irriconoscenza dei suoi concittadini e l’ingiusta sorte occorsagli. È l’amore a causare il difficile viaggio di Boccaccio, amore per l’opera dantesca ma anche in generale come principio «che muove il sole e le altre stelle»: ed è proprio facendo leva su questo amore che si concretizza la riconciliazione finale tra la città e la figlia a sua volta volontariamente in esilio. Non il letterato illustre, piuttosto un uomo sofferto: è questo il Dante che il film ci consegna. Un Dante in abiti civili, senza le vesti del poeta, ma solo quelle del cittadino, la cui vita trova il suo senso più pieno solamente all’incrocio tra le ragioni dell’arte e quelle della politica. Dante Alighieri: origine e destino della comunità italiana.

Dante. Regia: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; interpreti: Sergio Castellitto, Alessandro Sperduti, Carlotta Gamba, Enrico Lo Verso, Nico Toffoli, Alessandro Haber; produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; anno: 2022; durata: 94′.

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