Nel suo saggio che chiude formalmente le riflessioni avanzate nel volume collettaneo Mediarcheologia: i testi fondamentali (2023), a cura di Anna Caterina Dalmasso e Barbara Grespi, Erkki Huhtamo riflette sull’incontro ravvicinato con un meme di Samuel L. Jackson che ha catturato la sua attenzione: l’esortazione «Prova a dire ancora una volta “archeologia dei media”» viene sovraimpressa all’iconico frame tratto da Pulp Fiction che ritrae Jackson impugnante una pistola, con sguardo folle (Huhtamo in Dalmasso, Grespi 2023, p. 385). Sebbene venga ancora trattata con sospetto in Italia (Dalmasso, Grespi 2023, p. XII), e soggetta ai rischi derivati dallo sterile trend accademico, l’archeologia dei media è una disciplina vitale, e viene mantenuta tale da una folta riflessione interdisciplinare. Ma di cosa parliamo quando parliamo di “archeologia dei media”?

La crasi del titolo, “mediarcheologia”, non solo sottende un chiaro dialogo con il testo seminale di Peppino Ortoleva, Mediastoria (2002), bensì un reciproco ridefinirsi dei due termini, un’osmosi che spinge l’archeologia oltre la teoria foucaultiana e impone alla stessa di ripensare i media all’interno di relazioni epistemiche e materiali. Eppure, tale crasi di per sé implica un accostamento dissonante. Se volgiamo il pensiero all’archeologia, subito si susseguono nella mente associazioni fatte di polvere, picconi, frammenti e terreni da sondare sotto il sole rovente. All’estremo opposto, i media ci appaiono afferenti a campi di ricerca totalmente all’opposto rispetto all’archeologia, con il loro seguito di riflessioni che ci impongono di essere costantemente aggiornati sulle nuove tendenze.  

Qual è, dunque, il punto di dialogo fra archeologia e studi sui media? La mediarcheologia implica necessariamente un atteggiamento funambolico, uno studio con un piede nel passato e l’altro nel presente? Oppure, adottando una concezione di temporalità più audace, occorre pensare a un ciclo continuo di rigenerazione che annulla la divisione fra passato e futuro? Questo secondo approccio, se applicato alla disciplina, ci mostra il cammino nuovo e vibrante verso lo studio dei media. È un’acrobazia che trova un proprio equilibrio nei più diversi approcci verso la disciplina stessa, un intento che il volume esprime sin dalle prime battute. Suddiviso in quattro sezioni, che ospitano dai tre ai cinque saggi, Mediarcheologia: i testi fondamentali prende per mano anche il lettore più o meno avvezzo agli studi sull’archeologia dei media, conducendolo all’esplorazione – o allo scavo – delle diverse forme di mediatizzazione che costellano il mediascape, un «ambiente dominato da dispositivi tecnologici tanto da farsi paesaggio, veduta di mondo» (ivi, p. XI).

Se la disciplina nasce idealmente con il pioniere Siegfried Zielinski nel suo Archeologia dei media. Alla ricerca di altri ordini di visione (1992), e si evolve sull’onda delle opere di altri precursori, come Erkki Huhtamo e Eric Kluitenberg, l’archeologia dei media procede «in maniera carsica e vulcanica» e «come il magma nelle profondità della Terra scende e risale aprendosi nuove vie, essa indaga strade impreviste per far emergere i processi di sedimentazione, erosione e metamorfosi che si sono avvicendati nella storia dei media» (ivi, p. XXIII). Ma quali sono queste strade impreviste? Nella polifonia temporale entro la quale si sviluppano le diverse storie dei diversi media si concretizza l’operazione di Mediarcheologia, esplorando tali territori attraverso la pratica sistematica dell’anacronismo, oggi rivalutato «per il suo potenziale euristico» (ivi, p. XXIV). Frugando in archivi dimenticati (della memoria e della pratica), la mediarcheologia opera un decentramento della nostra prospettiva, nell’ottica della «parallasse storica» così come concepita da Anne Friedberg in The Virtual Window: From Alberti to Microsoft (p. 243).

La selezione dei saggi, dunque, opera sulle corde della fascinazione verso questo approccio che ripensa i media “del passato” e la loro ciclica riapparizione nei media “del presente”, in un quadro di discernimento di motivi fondamentali, come l’idea di temporalità non lineare, l’accoglienza del caso e dello scarto, l’attenzione per la materialità di oggetti e tecnologie (Grespi in Dalmasso, Grespi 2023, p. 303). Se nella prima sezione (L’”operazione” archeologica, curata da Andrea Mariani) veniamo introdotti ai testi seminali della metodologia (o delle metodologie) che tentano di rispondere alla domanda «Come funziona l’archeologia dei media?» (Mariani in Dalmasso, Grespi 2023, p. 3), le successive sezioni sortiscono tutta la fascinazione intrinseca dell’approccio mediarcheologico.

Nella seconda sezione curata da Miriam De Rosa (Mediarcheologia come pratica artistica) riguardante il tracciamento della genealogia del rapporto tra archeologia dei media e pratica artistica, la figura dell’”artista mediale” agisce nella storia dei media, ponendosi in equilibrio tra teoria e pratica riunificate sotto la nozione wittgensteiniana di Tätigkeit (in seguito mutuata dal mediarcheologo Kittler). Le operazioni artistiche che si sviluppano sotto l’egida dell’archeologia dei media lavorano proprio su queste corde, sul ritorno alla “materialità” dei dispositivi tecnologici resa ancor più evidente dalle pratiche di DIY (do it youself) del circuit bending (De Rosa in Dalmasso, Grespi p. 130). Tale approccio che pone in dialogo pratica artistica e riflessione mediarcheologica ci impone di ripensare i media non solo mediante la riflessione teorica, ma anche (e soprattutto) attraverso l’azione di “sporcarsi le mani”, aprire la macchina e studiarne i circuiti, in una prospettiva che funge da cassa di risonanza per le riflessioni eco-mediali di Jussi Parikka e Garnet Hertz sul «valore d’uso antropocentrico» della macchina (Hertz, Parikka in Dalmasso, Grespi 2023, p. 170) e sull’obsolescenza programmata.

Se le riflessioni mediarcheologiche debbono necessariamente confrontarsi con la materialità dei media, e con la loro “data di scadenza” che li tramuta in zombie media – così come denominati dai già citati Hertz e Parikka – è evidente come la storia dei media, in ottica archeologica, sia una storia di spettri ed entità fantasmatiche. La mediarcheologia è infestata dai fantasmi, come asserisce in prima battuta Giancarlo Grossi nell’introduzione alla terza sezione, Fantasmi mediali; e la vocazione verso l’incorporeo e l’ultraterreno di diverse ricerche in ambito mediarcheologico conferma tale assunto. In un’ottica di temporalità ciclica, ecco che il ripresentarsi del passato si materializza nel ritorno (o persistenza) di tecnologie, rappresentazioni e disposizioni spettatoriali del passato come, ad esempio, la fantasmagoria, straordinaria anticipatrice degli odierni dispositivi immersivi. La modernità, in questo senso, non ha fatto altro che moltiplicare le manifestazioni spettrali nel quadro evolutivo delle strumentazioni tecnologiche. I media hanno legittimato l’esistenza dell’invisibile, della spettralità che oggi ha il nome di elettricità, telecomunicazioni a grandi distanze e raggi x (Grossi in Dalmasso, Grespi, 2023, p. 190).

Se questa terza sezione si sviluppa sulle corde della spettralità, dunque sulla sfera dell’incorporeo, la quarta e ultima sezione curata da Barbara Grespi e Anna Caterina Dalmasso (Archeologia dei media e tecniche del corpo) non intende porsi in netto contrasto ritornando alla materialità del corpo, specialmente a fronte del saggio di Mereille Berton, Dal medium (spiritico) ai media (tecnologici), che indaga il corpo femminile del medium. Il ruolo della carnalità nei processi di mediazione, oggetto di ricerca protagonista di una vastissima costellazione di teorie, dialoga con la lanterna magica, con l’azione del “toccare le immagini”, con la pelle (nell’ottica della relazione fra ideologia razzista e tecnologie), con il topos fotografico che Erkki Huhtamo, nell’ultimo saggio, interpreta come archeologia del cyborg. Ecco che l’archeologia dei media si configura non come una narrazione lineare e determinista delle invenzioni, delle tecnologie “vincenti” e di quelle divenute obsolete. L’anacronismo metodologico ci consente di «guardare il presente dal passato come se fosse futuro», prefigurando una storia del futuro dei media che ammette la spettralità, la corporeità, le pratiche artistiche di riuso, nella prospettiva di una sempre maggiore coscienza di un’ecologia mediale all’interno del mediascape.

Riferimenti bibliografici
A. Friedberg, The Virtual World: From Alberti to Microsoft, MIT Press, Cambridge, MA 2009.
P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2002.
S. Zielinski, Archeologia dei media. Alla ricerca di altri ordini di visione, tr. It. in G. Fidotta, A. Mariani, a cura di, Archeologia dei media, Meltemi, Milano 2018.

Anna Caterina Dalmasso, Barbara Grespi (a cura di), Mediarcheologia: i testi fondamentali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023

Share